

È un’esperienza strana: leggere un romanzo ambientato in Sicilia e avere l’impressione che la Sicilia sia altrove. Non in un altrove immaginario, ma proprio in un altro libro, uscito quasi in contemporanea. Mi è successo con L’isola e il tempo, esordio di Claudia Lanteri nella collana Unici di Einaudi, in libreria da poco più di un anno, e con Mare aperto, reportage narrativo di Luca Misculin uscito di recente nella collana Maverick della stessa casa editrice. Entrambi raccontano, a modo loro, l’arcipelago siciliano: il primo è un romanzo letterario e introspettivo, l’altro un saggio narrativo attraversato da storie di scienza, politica, migrazioni e mito. A sorprendere non è solo il confronto tra i generi ‒ già di per sé interessante ‒ ma il fatto che sia Mare aperto, firmato da un giornalista milanese, a offrire la visione più ampia, più precisa, a tratti più lirica di un Sud spesso ridotto a cartolina.
Lanteri e Misculin scrivono libri molto diversi, ma si trovano a interrogare lo stesso spazio: un Mediterraneo ambivalente, pieno di storia e di dolori, di luce e di fantasmi. Uno spazio che, come la berta maggiore ‒ l’uccello raro che ancora nidifica a Linosa ‒ si lascia osservare solo a distanza, e solo con pazienza. Per motivi e con esiti diversi, entrambi i libri ne inseguono il canto.
La berta maggiore (Calonectris diomedea, secondo i tecnici) è un uccello marino della famiglia delle Procellariidae. Alto circa 50 centimetri, ha un’apertura alare che sfiora il metro. Ha piume grigie sulla testa, dorso bruno, ventre e collo bianchi; becco giallo e zampe rosate. È conosciuto per la sua voce che, come quella di Nonò, il protagonista della storia di Lanteri (vagamente ispirato all’Arturo morantiano), può essere facilmente scambiata per quella di un bambino. Secondo alcuni studiosi potrebbe essere proprio il canto della berta ad aver ispirato il mito delle sirene. In Italia la berta nidifica soprattutto sulle isole, anche se alcune piccole colonie si trovano lungo le coste. La colonia più numerosa d’Europa è a Linosa, dove si stima vivano circa 10.000 coppie. Come le berte, anche il tipo di romanzo scritto da Lanteri (che a Linosa è ambientato) si presenta come una specie marginale, difficile da avvistare. Per la sua scrittura complessa, nutrita di sicilianismi rari, e per il lavoro sperimentale sulla struttura del giallo e sul punto di vista inattendibile, ha molti tratti di quella che Gianluigi Simonetti ha chiamato, con un misto di nostalgia e ironia, “la letteratura di una volta”. Lo dimostra bene quel piccolo capolavoro di virtuosismo che è, verso l’inizio della storia, la descrizione ironica e macabra del cadavere di Daisy, la moglie dello skipper Bruno Surico:
La morta non è più abbigliata come prima, come per una gita al mare. Le spalle, denudate delle capricciose bretelline, ora sono coperte da una casacca di mussola dove sono di piú i bottoni che mancano di quelli presenti all’appello. Nell’ombra non si nota neppure la stoffa consumata sotto le ascelle né i gomiti bucati. L’orlo della gonna sì, quello è tutto sbrindellato. I fili spenzolano a centinaia verso il piano del tavolo, sui piedi un poco discosti, ricadono in su, si radunano in piccole pozzanghere. È una pupidda imbiancata, odorosa del talco prestato da qualche vicina; ha i capelli ordinati, solo qualche peluzzo scappa dalle crocchie che le hanno intrecciato, e le dà un’aria allegra, impertinente. Non so dire quanti anni ha: da come la linea del collo scivola verso le piccole ossa potrebbe essere una ragazzina, scattosa come una stampella, ma la faccia è tonda, di pesca matura da mordere. L’abitino modesto glielo ha imprestato per l’ultimo sonno mia madre Angelina: non lo metteva piú da quando io, l’ultima infornata, le avevo fatto crescere il culo come una mezza patata lessa fa con l’impasto del pane, come ripete ogni volta mio padre prima di pizzicarglielo. Dalle ciglia lunghe e distese potrebbe arrivare un fremito di minuto in minuto, quasi stesse sognando. La fronte pare affollata di pensieri, la bocca è piena, una festa di rose e di fiori.
Questo lavoro sulla lingua è il principale pregio del romanzo, ma rischia di essere anche il suo difetto, perché leggendolo si avverte a tratti una patina di letterarietà convenzionale, novecentesca, in definitiva manierista: complice, anche, dell’idea, di fatto conservatrice, che il Sud possa essere raccontato solo come un’eccezione, come un’“isola”, appunto, al di fuori della portata della razionalità (e invece ha ragione Mario Fillioley quando sostiene che la Sicilia è “un’isola per modo di dire”). Del resto, molte narrazioni contemporanee, non solo letterarie ma anche audiovisive, scelgono questa strada. Citare la serie tratta dal Gattopardo sarebbe in questo senso fin troppo facile.
Il lavoro sulla lingua è il principale pregio del romanzo, ma rischia di essere anche il suo difetto, perché leggendolo si avverte a tratti una patina di letterarietà convenzionale, novecentesca, in definitiva manierista.
Dal canto suo, L’isola e il tempo riattiva alcuni tratti di una tradizione letteraria che in Sicilia ha una storia lunga, non meno nobile nella forma e non meno ambigua nei suoi esiti; né è un caso, quindi, che tra le parole chiave per comprendere il romanzo ci sia la memoria: “L’invenzione dà forma al disordine”, scrive Lanteri, “oppure s’impazzisce, ci si perde a inseguire i fili spersi nella memoria: nel raccomodare la trama, quello che è stato nel passato non è tanto diverso da quello che non è stato”. La memoria, insieme a ciò che essa conserva e a ciò che invece non riesce (o non vuole) conservare, è uno dei temi ricorrenti nella poetica di molti scrittori siciliani. Già Luigi Pirandello metteva in scena nella pièce Enrico IV un personaggio che preferisce abitare un’identità fittizia piuttosto che affrontare la realtà dolorosa della propria vita. L’incapacità di fare i conti col passato e il rischio di restarne intrappolati è anche uno dei motivi cardine di quel che Leonardo Sciascia ha definito col termine “sicilitudine” (una parola che, fondendo Sicilia e solitudine con un tocco di ironia, mira a descrivere una presunta condizione esistenziale isolana). Nel romanzo di Lanteri, come in Pirandello, il corpo a corpo col passato si svolge in un senso perlopiù individuale e psicologico, ma anche nella forma di un recupero in chiave preziosa del dialetto, seguendo una tradizione abbastanza diffusa tra gli autori siciliani (“– Le berte, vedi? / È così che in lingua italiana lui nomina quelle che noi diciamo le turriàche, e io lo lascio nella sua ignoranza perché non è bello star sempre lì a correggere tutti per ogni minima cosa”, dice nelle pagine iniziali il narratore, prendendo in giro l’italiano pulito del professor Dalmasso).
Negli ultimi decenni sono stati i gialli di Andrea Camilleri a rendere popolare questo particolare tipo di espressionismo stilistico, sfruttandolo a fini comici, ma esso esisteva già in opere sperimentali come Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) di Vincenzo Consolo e Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo (quest’ultimo è stato da poco ripubblicato da Rizzoli in un’edizione elegante, con una bella prefazione di Giorgio Vasta). Secondo Margherita Ganeri, l’opera di Consolo “affronta la rievocazione del passato alla luce di una notevole tensione attualizzante che investe il rapporto tra la memoria e il linguaggio, con la sua sedimentazione e stratificazione”, e questa memoria è anche e innanzitutto un resoconto di conflitti, incroci e migrazioni dovuti alla peculiare posizione dell’isola al centro del Mediterraneo (“Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione è il significativo titolo di una ricca raccolta di saggi curata nel 2021 da Gianni Turchetta). Mentre, interpretando Horcynus Orca come un’epopea della memoria, Marco Trainito intitolava una sua monografia del 2004 su D’Arrigo Il mare immane del male.
Nel romanzo di Lanteri, come in Pirandello, il corpo a corpo col passato si svolge in un senso perlopiù individuale e psicologico, ma anche nella forma di un recupero in chiave preziosa del dialetto, seguendo una tradizione abbastanza diffusa tra gli autori siciliani.
Del resto, la tensione tra uno stile razionale e comunicativo e uno invece più stratificato e virtuosistico, tra l’italiano standard e quello influenzato da tratti regionali, coinvolge gli scrittori del Sud in generale (in realtà l’affermazione è vera, con intensità variabile, per gli scrittori italiani tout court). Si tratta di una querelle tutt’altro che chiusa, che continua a offrire modelli alternativi e vitali. Basti pensare al modo differente con cui fronteggiano la questione i due più famosi cicli narrativi della letteratura italiana degli ultimi decenni: il già citato Camilleri, da una parte, e, dall’altra, L’amica geniale di Elena Ferrante, il cui successo (almeno se ci fermiamo al campo letterario) si deve senz’altro anche alla scelta di evitare un impianto linguistico marcato da esotismi, in favore di una vocazione alla narratività pura. Tra questi due estremi, lo spettro delle possibilità stilistiche è naturalmente ampio e variegato e, pur compiendo molti prelievi dal dialetto, il libro di Lanteri non rinuncia affatto a un’impressione complessiva di chiarezza e fluidità, che lo rende se non altro assai godibile.
Reportage, memoir, inchieste narrative sanno talvolta essere più ariosi, più porosi, più attenti al mondo di quanto lo siano in media i romanzi. Guai agli scrittori che leggono solo narrativa. E viva quelli che nutrono la propria invenzione con il liquido di contrasto di altri generi.
E tuttavia, che si possano scrivere pagine importanti su un luogo anche senza imitare la lingua di chi ci abita (in fondo, un’ovvietà) è testimoniato ancora una volta dal fatto che uno dei libri più belli sulla Sicilia usciti quest’anno è stato da scritto da un milanese: Luca Misculin, appunto. In realtà, Mare aperto parla anche della Sicilia, ma lo fa con così tanta passione documentaria che non si può non restare ammirati. Del resto, non bisogna nemmeno sorprendersi troppo. In una tradizione letteraria vitale, narrativa e saggistica non dovrebbero marcare le distanze, ma cooperare ‒ come due lenti diverse puntate sullo stesso paesaggio ‒ alla costruzione, magari sfumata e plurale, ma condivisa, di un’idea di verità; illuminare, anche solo per qualche istante, invece di aggiungere buio al buio.
Eppure capita che la narrativa più colta, facendo Arcadia di modelli novecenteschi ormai quasi del tutto svuotati della loro originaria carica polemica, si attardi in una retorica del mistero, dell’opacità, della noluntas sciendi, nella quale il trauma, da impasse produttrice, rischia di divenire alibi per sospendere il desiderio di conoscere. A questo cedimento talvolta risponde, in controtendenza, una certa saggistica: più libera, forse, dai canoni e dalle richieste implicite del mercato letterario; più audace nell’osservare, nel domandare, nel tracciare nessi imprevedibili. Reportage, memoir, inchieste narrative sanno talvolta essere più ariosi, più porosi, più attenti al mondo di quanto lo siano in media i romanzi. Guai, insomma, agli scrittori che leggono solo narrativa. E viva quelli che nutrono la propria invenzione con il liquido di contrasto di altri generi.
Mare aperto esplora il canale di Sicilia non come un semplice sfondo, ma un come crocevia di storie, tensioni e memorie, sospeso tra meraviglia e tragedia.
Cito, tra i tanti, due esempi diversissimi, ma egualmente rappresentativi di una ricerca metodica della storia poco raccontata. Il primo, sulla logistica del calcio di provincia: “In teoria il Lampedusa dovrebbe giocare nel girone A, quello della provincia di Agrigento: in realtà viene sempre assegnato al girone B, cioè quello di Palermo, perché ad Agrigento non c’è un aeroporto e le trasferte sarebbero di fatto impossibili”. Il secondo, sull’harissa, una pasta di peperoncini tipica delle coste della Tunisia: “In Italia è ormai nota fra i vegetariani come la ‘nduja-senza-carne, ed esistono chat sotterranee su Telegram in cui ci si scambia ricette e consigli su dove acquistarla online”. C’è, insomma, una quota di intrattenimento colto, insieme a una passione genuina per la ricerca del dettaglio inaspettato, della prospettiva inedita su fatti e questioni (una su tutte la tragedia dei migranti) che sembrano ormai saturati da un ingorgo di narrazioni. Mare aperto è però anche un libro etico, che eredita dallo stile del Post la programmatica, quasi polemica rinuncia all’io, e un’idea della scrittura come lavoro innanzitutto di servizio, nel senso alto e nobile del termine, nei confronti di chi vuole capire di più.
C’è qualcosa di lucreziano nel modo in cui Misculin struttura il suo racconto. Come il poeta latino mescolava il miele alla medicina amara della sua filosofia, così qui l’autore dissemina il testo di episodi singolari, aneddoti storici, squarci di bellezza quasi cinematografica. Eppure, dietro l’apparente levità della scrittura, il libro ha un sottotesto che si fa via via più cupo. Un esempio emblematico è il racconto della “deportazione” in Libia di decine di migliaia di italiani ai tempi del fascismo. Il capitolo si apre con una serie di testimonianze che sembrano tratte da un documentario sui migranti che arrivano oggi in Italia. Questo crea uno straniamento che ribalta le nostre percezioni ossificate:
“Quando arrivammo al porto c’era tutto un formicolio di persone, chi con la valigia, chi con sacchetti stracolmi di indumenti, bimbi che piangevano, molto probabilmente avevano dormito poco e male. Certamente molti di noi vedevano il mare per la prima volta”, scrisse E. nel suo diario.
La traversata, aggiunse E., durò diversi giorni, a bordo di un’imbarcazione stracarica di persone: “La mamma e I. soffrivano il mal di mare e molto spesso erano costretti a rimanere in coperta per non stare male”.
All’arrivo, raccontò invece N., “ci misero in fila e ad ogni capofamiglia diedero una sporta piena di viveri”. Laggiù “c’erano ad aspettarci cento camion, me li ricordo bene, pronti a portarci a destinazione. Su ogni camion erano stipate due famiglie. […] Siamo stati i primi a partire; ricordo che la mamma disse: ‘Vuoi vedere che siamo i primi a partire e saremo gli ultimi ad arrivare?’ Infatti così è stato: ricordo i suoi pianti”.
G., che vide sbarcare questa enorme “colonna” di persone, la descrisse così: “donne incinte, bambini lattanti, ragazzi; tutti hanno qualche necessità e a tutto occorre pensare e provvedere”.
C’è qualcosa di lucreziano nel modo in cui Misculin struttura il suo racconto. Come il poeta latino mescolava il miele alla medicina amara della sua filosofia, così qui l’autore dissemina il testo di episodi singolari, aneddoti storici, squarci di bellezza quasi cinematografica.