

L a geopolitica dell’acqua oggi ha di certo meno visibilità rispetto alla corsa all’intelligenza artificiale o alla competizione tecnologica globale, ma resta un nervo scoperto nelle dinamiche di potere contemporanee. Ce lo ricordano le recenti tensioni tra India e Pakistan: dopo un attentato, Nuova Delhi ha sospeso il Trattato delle acque dell’Indo, minacciando di ridurre del 25% il flusso verso il Pakistan. In un’area dove l’agricoltura dipende in larga parte da quei fiumi condivisi, l’acqua torna a essere leva di pressione e possibile miccia di conflitto.
A rendere ancora più instabile il quadro è l’impatto della crisi climatica, che accentua la vulnerabilità delle risorse idriche in tutto il mondo. L’aumento delle temperature, l’alterazione dei regimi delle piogge e la maggiore frequenza di eventi estremi compromettono la disponibilità e la prevedibilità dell’acqua, con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e migrazioni. Anche regioni un tempo considerate relativamente sicure stanno affrontando scenari di scarsità.
Negli Stati Uniti, nel 2023, sette Stati del sud-ovest hanno siglato un accordo per ridurre i prelievi dal fiume Colorado, evitando il collasso di metropoli come Los Angeles e Phoenix. Ma la portata del fiume continua a calare, ponendo interrogativi sempre più urgenti sulla sostenibilità di lungo periodo.
La crisi climatica sta accentuando la vulnerabilità delle risorse idriche in tutto il mondo, con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e migrazioni.Sempre negli Stati Uniti, l’acqua è oggi al centro di dispute ben più grottesche. Nell’aprile 2025, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per annullare i limiti ambientali sulla pressione delle docce, lamentando che le regolazioni volute da Obama e Biden non gli consentivano di lavarsi bene i capelli. A inizio del suo secondo mandato e in un modo decisamente più preoccupante, rispolverando nostalgie imperiali, Trump ha evocato pubblicamente la necessità di “riprendere” il controllo del Canale di Panama, denunciando le tariffe panamensi come ingiuste e ventilando persino l’ipotesi di un’azione militare.
In Africa, intanto, la Grand Ethiopian renaissance dam (GERD) continua a essere motivo di scontro diplomatico tra Etiopia, Egitto e Sudan, preoccupati per il controllo delle acque del Nilo Azzurro. Il progetto, ormai pienamente operativo, è destinato a ridisegnare i rapporti di forza nel Corno d’Africa.
Il secolo delle acque forzate
Queste dinamiche contemporanee trovano radici profonde nel modo in cui, durante il Novecento, si è concepita l’idrosfera: come spazio da dominare, modellare e sfruttare a fini economici, politici e simbolici. Winston Churchill, fermandosi nel 1908 a osservare il Nilo presso il lago Vittoria, scrisse che “una simile leva per controllare le forze naturali dell’Africa che nessuno impugna, può soltanto intrigare e stimolare l’immaginazione”. Negli anni successivi, la costruzione di dighe e sistemi idraulici divenne una pratica globale: Stati Uniti, Unione Sovietica, India e Cina investirono massicciamente in progetti di deviazione dei fiumi e costruzione di bacini, vedendo in essi strumenti di modernizzazione e legittimazione politica. Le dighe non solo fornivano irrigazione ed energia elettrica, esprimevano anche la capacità eroica dello Stato di dominare la natura per il bene collettivo.
Due casi emblematici mostrano il costo di questa visione: in India, l’Inghilterra coloniale sfruttò l’Indo per consolidare il proprio dominio agricolo, mentre in Asia centrale l’Unione Sovietica progettò imponenti sistemi irrigui per sostenere la monocultura del cotone. L’ambizione sovietica portò alla ben nota vicenda del prosciugamento del lago d’Aral, con conseguenze disastrose: desertificazione, salinizzazione dei suoli, crollo dell’attività ittica, crisi sanitaria ed economica.
Prima di farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita nel piccolo: argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in invasi.
Nulla di nuovo, in fondo: già negli anni Sessanta l’Unione Sovietica aveva concepito piani dettagliati per rovesciare il corso dei fiumi artici e trasferire enormi volumi d’acqua verso sud, con l’obiettivo di irrigare le steppe dell’Asia centrale e sostenere la produzione agricola. Ma il progetto ‒ noto come Northern river reversal ‒ venne abbandonato nel 1986, sotto le pressioni del mondo scientifico, per l’impatto ambientale potenzialmente devastante.
Quel progetto mai realizzato, ma ciclicamente evocato, è forse il più recente fantasma di una lunga ossessione imperiale, moderna, nazionalista che nell’ex Unione Sovietica si è manifestata in modo particolarmente imponente: l’acqua come vettore di potere, oggetto di controllo tecnico e politico. Ma prima di farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita nel piccolo: argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in invasi.
C’è un caso, all’apparenza periferico, che racconta meglio di altri questa tensione. In un altopiano del Caucaso meridionale, un lago è stato trasformato in strumento di modernizzazione forzata, banco di prova per ingegneri, politici e ideologi. Una microstoria che rivela l’ambizione ‒ tipicamente novecentesca ‒ di rifare la geografia, riscrivere l’ecologia, disciplinare il paesaggio.
Storia di un equilibrio fragile
Arrivando dal Nord dell’Armenia, lungo le strade che scendono dal Parco nazionale di Dilijan ‒ detto anche Piccola Svizzera d’Armenia per i suoi paesaggi montuosi, le foreste dense e le sorgenti minerali curative – il lago di Sevan apre il paesaggio seguendo l’estensione del grande altopiano che lo contiene. L’altitudine si abbassa di poco, ma la vegetazione dirada e poi scompare, gli spazi si allargano. Con oltre mille chilometri quadrati a quasi duemila metri sul livello del mare, Sevan è la principale riserva d’acqua dolce del Caucaso meridionale e uno degli spazi simbolici più importanti dell’Armenia.
La storia del lago Sevan mostra come anche un bacino apparentemente periferico possa diventare banco di prova per ideologie tecnocratiche, ambizioni statali e progetti di disciplinamento territoriale.
Nonostante le pressioni ambientali e la crescita edilizia, Sevan è ancora oggi meta di turismo interno, frequentata per le spiagge, le escursioni in barca, la pesca, i monasteri sulle rive. Il più noto si trova su quella che un tempo era un’isola ‒ Sevanavank ‒ e che oggi è una penisola. Non è un dettaglio paesaggistico: è la traccia visibile di un abbassamento artificiale iniziato negli anni Trenta, quando il livello del lago venne ridotto per scopi irrigui ed energetici.
Già negli anni Venti, l’ingegnere armeno Soukias Manasserian aveva proposto di abbassare Sevan di 45 metri per ridurre l’evaporazione e usare l’acqua a fini produttivi. La proposta, ripresa con entusiasmo nel Primo piano quinquennale, portò nel 1933 all’avvio della costruzione di un tunnel lungo quasi 40 chilometri, destinato a convogliare l’acqua verso sud, lungo il fiume Hrazdan. Completato nel 1949, il tunnel diede avvio al progressivo svuotamento del lago.
Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, il livello si abbassò di quasi venti metri, con una perdita di volume stimata attorno al 40%. Le conseguenze furono gravi: perdita di biodiversità, prosciugamento delle coste, salinizzazione del suolo, alterazione del microclima. Alcuni scienziati armeni sollevarono l’allarme già negli anni Sessanta, ma le loro voci rimasero marginali. Solo nel 1978 si autorizzò la costruzione di un tunnel di reintegro (Arpa-Sevan), completato nel 1981. Un secondo tunnel, il Vorotan-Sevan, entrò in funzione nel 2004.
L’URSS rese l’acqua un agente politico e simbolico: controllare i fiumi significava piegare la natura alla volontà dello Stato.
Deviare fiumi, nutrire anime
Sevan fu, in un certo senso, un prototipo. A partire dagli anni Cinquanta, la pianificazione sovietica riprodusse lo stesso schema in Asia Centrale, deviando i fiumi Amu Darya e Syr Darya per l’irrigazione intensiva del cotone: nacque così il ben noto disastro del Lago d’Aral, che in pochi decenni si ritirò lasciando dietro di sé deserti salati e relitti navali. Negli anni Ottanta fu la volta del Kara-Bogaz, golfo poco profondo del Mar Caspio, chiuso artificialmente e trasformato in un bacino sterile. L’URSS rese l’acqua un agente politico e simbolico: controllare i fiumi significava piegare la natura alla volontà dello Stato.
Come spiega Frank Westerman nel suo reportage e saggio del 2020 Ingegneri di anime l’Unione Sovietica mise in scena una titanica alleanza tra ingegneri e scrittori, impegnati nella costruzione di un nuovo spazio fisico e ideologico. La tesi di Westerman è che il concetto di “dispotismo idraulico”, formulato da Karl Wittfogel, trovi la sua massima espressione in Unione Sovietica: lo Stato totalitario si legittima attraverso il controllo delle acque, imponendo su di esse una centralità politica, simbolica e produttiva che trascende la razionalità ecologica.
Oltre all’Unione Sovietica, anche i regimi autoritari europei del primo Novecento investirono sul paesaggio come strumento di legittimazione politica.
I nostri carri armati non valgono niente se le anime che devono guidarli sono di argilla. Per questo dico: la produzione delle anime è più importante di quella dei carri armati… Qui qualcuno ha osservato che gli scrittori non possono restarsene zitti e fermi, che devono conoscere la vita del loro Paese. L’uomo è trasformato dalla vita, e voi dovete aiutarlo nella trasformazione della sua anima. La produzione di anime umane è importante. E per questo brindo a voi scrittori, perché siete ingegneri di anime.
Nasce così la letteratura idraulica: un sottogenere del romanzo sovietico calato dall’alto del regime (e sempre sottoposto ai raggi X della Glavlit, la Direzione generale per gli affari della letteratura e dell’editoria) che esalta l’opera pubblica come fondamento della nuova civiltà socialista e che funzionerà, da qui in avanti, come un dispositivo ideologico per mascherare le contraddizioni della modernità. Una su tutte: la realizzazione di queste opere fu davvero possibile solo grazie allo sfruttamento della manodopera di milioni di condannati ai lavori forzati.
Terraformare l’Europa
L’idea che la trasformazione dell’ambiente potesse diventare una leva narrativa e simbolica non fu esclusiva dell’Unione Sovietica. Anche i regimi autoritari europei del primo Novecento investirono sul paesaggio come strumento di legittimazione politica: agire sulla natura significava dimostrare ordine, efficienza, potere. In Italia, il fascismo fece della bonifica integrale uno dei suoi principali dispositivi simbolici. Nonostante la portata di questi interventi fosse in realtà marginale, la redenzione delle paludi malariche, la trasformazione dell’Agro Pontino in insediamenti agricoli moderni e l’epopea dei pionieri della terra nuova divennero elementi centrali della propaganda. Cinegiornali, plastici, architetture monumentali e retoriche del lavoro contribuirono a costruire l’immagine di una natura domata e redenta, conferma tangibile della capacità del regime di instaurare un ordine anche ambientale.
Anche nel fascismo la trasformazione fisica del paesaggio si accompagnava a un disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi.
Il nazionalsocialismo tedesco portò questo paradigma a un’estremizzazione ideologica. La dottrina Blut und Boden (sangue e suolo), elaborata dal ministro Richard Walther Darré, legava l’identità razziale alla terra, sostenendo che la sopravvivenza dell’ariano dipendesse dalla sua connessione ancestrale con il territorio tedesco. L’organizzazione del Reichsarbeitsdienst mobilitava migliaia di giovani in lavori pubblici, trasformando il paesaggio in un rituale collettivo di disciplina e appartenenza.
In entrambi i casi, l’ambiente trasformato diventava un set politico e pedagogico, costruito attraverso propaganda, architettura e narrazione. L’acqua ‒ bonificata, deviata, trattenuta ‒ fu uno degli elementi privilegiati di queste operazioni ideologiche.
Dispotismo idraulico e modernità socialista
Il fascismo, il nazionalsocialismo e il socialismo sovietico agirono, con gradi e strumenti diversi, all’interno di uno stesso orizzonte modernista: l’idea che la tecnica potesse dominare la natura, ordinarla, piegarla a fini produttivi, simbolici e politici. Anche il fascismo terraformò su larga scala, non solo nelle aree di bonifica ma anche attraverso la grande opera di elettrificazione delle Alpi, che comportò la costruzione di dighe, serbatoi artificiali, canali forzati e centrali idroelettriche. L’acqua montana venne incanalata e messa al lavoro per produrre energia, autosufficienza e immaginario patriottico. L’intervento non fu solo simbolico, ma modificò concretamente gli equilibri ambientali delle valli alpine e ne riscrisse la geografia.
Il fascismo spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio, ma nessuno ha trasformato i suoi paesaggi su scala così vasta e in tempi così rapidi come l’Unione Sovietica.
Il concetto di “dispotismo idraulico” di Wittfogel voleva descrivere forme antiche di potere che fondavano la loro autorità sul controllo delle risorse idriche. Ma fu proprio nell’Unione Sovietica, secondo Westerman, che quel modello trovò un’espressione moderna, tecnologicamente aggiornata e ideologicamente giustificata. Il dominio sull’acqua genera inevitabilmente centralizzazione politica, burocrazia espansiva e gerarchie verticali: condizioni che trovano piena corrispondenza nell’organizzazione dell’economia pianificata sovietica, sostiene Westerman.
A differenza dei regimi autoritari coevi in Europa, il socialismo reale non si limitò a rappresentare la natura come spazio da redimere: tentò di riorganizzarla integralmente secondo principi razionali e quantitativi su larghissima scala. L’acqua veniva misurata, deviata, redistribuita; i bacini, svuotati o riempiti a seconda delle esigenze della produzione agricola e industriale. Questa visione trovò la sua massima espressione nei piani idraulici dell’Asia centrale: milioni di ettari irrigati, chilometri di canali, prosciugamenti artificiali.
L’Unione Sovietica ha completamente snaturato il nucleo ecologico del pensiero marxista, che nei tardi scritti di Marx si stava orientando verso un’analisi della cosiddetta “frattura metabolica” tra società e natura.
Decisamente più radicale la lettura ormai datata di Murray Feshbach e Alfred Friendly Jr. nel loro libro Ecocide in the USSR: Health and Nature Under Siege ‒ opera che a ridosso del crollo del 1992 segnò l’opinione pubblica occidentale con toni volutamente drammatici e generalizzanti: l’Unione Sovietica avrebbe trasformato l’intero continente eurasiatico in una zona di sacrificio ambientale, compromettendo irrimediabilmente ecosistemi, risorse idriche e salute pubblica, in nome della produzione e della segretezza di Stato. Secondo gli autori, l’ecocidio non era un incidente del sistema sovietico, ma una sua componente strutturale, favorita dall’opacità del potere e dalla logica pianificatrice che vedeva la natura solo come materia da sfruttare.
In questo quadro, il lago Sevan può essere considerato un laboratorio preliminare, un esperimento su scala minore rispetto alle trasformazioni idrauliche realizzate in Asia Centrale, ma già pienamente paradigmatico. La deviazione del suo corso naturale, l’abbassamento controllato del livello, la trasformazione di un’isola in penisola, l’alterazione degli equilibri ecologici ed economici locali: tutto anticipava, per logica e metodo, quanto sarebbe accaduto vent’anni dopo con il disastro del lago d’Aral.
L’acqua è ancora infrastruttura del potere
Oggi il controllo delle acque non è più dominio esclusivo dei regimi autoritari. Anche nelle democrazie neoliberali, l’acqua è al centro di nuovi conflitti: come risorsa scarsa, come leva geopolitica, come strumento di influenza economica. Durante l’amministrazione Trump, il paradigma si è aggiornato: dal rilancio delle grandi opere idrauliche alla sistematica deregulation ambientale, dalla riduzione dei vincoli federali sulle risorse idriche al disimpegno dai trattati sul clima e sulla cooperazione transfrontaliera. Il linguaggio si è fatto più pragmatico, orientato al mercato, epurato della grammatica della sostenibilità.
Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare.
Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare. I progetti mai realizzati di deviazione dei fiumi siberiani non sono oggi interessanti per la loro fattibilità, ma per la logica che incarnano: la tentazione ricorrente di piegare l’idrosfera a un disegno politico, economico, ideologico.
Da questo punto di vista, la vicenda del lago Sevan ‒ apparentemente marginale nella geografia dei grandi bacini ‒ si rivela paradigmatica. Lontana dalle megalopoli e dalle rotte globali, eppure profondamente inserita nella storia del dominio tecnico sulla natura, racconta con chiarezza come il controllo dell’acqua sia sempre anche controllo del territorio, dei corpi, dei futuri possibili. È in questi spazi periferici che si manifesta con maggiore nitidezza la persistenza ‒ e l’adattabilità ‒ del potere idraulico.