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chi è capitato di imbattersi almeno una volta nella dottrina buddhista e nel concetto di vuoto, non sarà sfuggita l’ironia dello spendere così tante parole intorno al vuoto e al nulla. Un maestro zen certo ne riderebbe. Lo stesso paradosso aleggia nella mostra fotografica di Guido Guidi Da un’altra parte alla galleria 10 Corso Como curata da Alessandro Rabottini. Il paradosso che ha spinto Guidi a indugiare su luoghi che in fondo non sembrano meritare di essere presi sul serio, perché non rimandano a nulla. È difficile capire come sia stato possibile fotografare il nulla per tutta la vita. E la prospettiva di leggere la pratica di Guido Guidi come quella di un maestro zen si fa sempre più convincente, mentre i suoi paesaggi irrilevanti si inseguono: finestre murate, cartelloni pubblicitari sfondati, l’angolo di una strada qualsiasi, un pezzo di plastica risputato dalla marea accanto all’ombra di chi lo fotografa. Sono spazi vuoti, vuoti fecondi, luoghi insignificanti, perché l’insignificante è quello che gli interessa.
È vero che le didascalie raccontano di luoghi con nomi veri, Ronta, Gorizia, Venzone, Roncisvalle, Cesena, Cervia e altri, ma l’impressione è che potrebbero essere ovunque, ma anche da nessuna parte. Guidi crea un nuovo concetto di spazialità, privata di ogni specificità territoriale, che rende ogni luogo assolutamente indeterminato. È qui, nell’approccio decostruttivista alla rappresentazione dello spazio, che è possibile rintracciare una metodologia zen. Nel desiderio di non volere sostituire una vecchia rappresentazione della realtà con una inedita ma, in maniera assai più radicale, di liberarsi dalla tendenza a concettualizzare la realtà, e del rischio conseguente di confondere la nostra rappresentazione per la realtà stessa.
Da un’altra parte raccoglie una settantina di fotografie realizzate tra i primi anni Settanta e il 2023, presentate secondo una sofisticata scelta curatoriale che enfatizza le tangenze poetiche e formali tra le fotografie, al di là dell’ordine cronologico e della logica della serie. Ogni parete presenta una piccola famiglia di fotografie, spesso raccolte in forma di dittico o trittico, che costruiscono narrazioni ellittiche, sospese. Tra le più esemplari in questo senso citerei le cinque fotografie del muro dello studio di Guidi a Ronta durante un’ecclissi di sole. Ronta, 11.08.1999 è una sequenza che visualizza cinque momenti del parziale oscuramento del disco solare, visto attraverso l’ombra proiettata dagli alberi sul muro. Vediamo, come in una serie di fotogrammi, il sole, al picco del suo oscuramento, penetrare tra le gli alberi disegnando sul muro tante piccole falci di luce, vediamo le lingue di luce farsi più grandi, e occupare via via parti più ampie di muro. L’ultimo fotogramma tradisce l’aspettativa di vedere un’ulteriore mutazione, si tratta di una versione in bianco e nero della fotografia vicina a colori, una prova dell’attitudine a fotografare la stessa cosa in due momenti contigui, a registrare due scarti minimi che restituiscano sostanza al tempo.
Guidi crea un nuovo concetto di spazialità, privata di ogni specificità territoriale, che rende ogni luogo assolutamente indeterminato. È qui, nell’approccio decostruttivista alla rappresentazione dello spazio, che è possibile rintracciare una metodologia zen.
E può succedere ancora che un elemento imprevisto cambi l’assetto dell’immagine, che una macchina corra dentro l’inquadratura (Cesena, 1980) o che dei bambini la lascino rapidamente (Cogliate, 1995). Guidi accoglie l’errore, lo ingoia, e resta fedele alla verità come gli si manifesta. Un esercizio del vero che viene confermato dall’uso, nella maggior parte dei casi, della stampa a contatto, che prevede che il negativo non venga ingrandito in fase di stampa. Il formato piccolo traduce quindi questa corrispondenza tra la dimensione della stampa e quella dei negativi su pellicola. E l’effetto è quello di una grande presenza della sua fotografia. La prima implicazione del formato è quella di verità, dal momento che nessuna informazione contenuta nel negativo va perduta, la seconda è una forma di intimità con la fotografia, che invita ad andare vicino, ad avere un rapporto fisico con essa dettato dal formato più intimo.
Una fotografia semplice nel contenuto ma enigmatica nel significato, con un’idea di viaggio attraverso i luoghi e le immagini che viene liberato dalla ricerca dello straordinario, dello spettacolare, del folkloristico, spesso estetizzato ed esotizzato.
Non si può dire che Guidi sia stato il solo ad andare in questa direzione, basti pensare alla cosiddetta scuola italiana di paesaggio il gruppo di fotografi italiani, di cui è stato parte, che a partire dagli anni Settanta ha guardato al paesaggio come al luogo in cui rinnovare il linguaggio della fotografia, il luogo in cui la fotografia potesse rivolgersi a sé stessa. Nella topografia della scuola italiana di paesaggio troviamo una contronarrazione agli stereotipi turistici da cartolina del Touring Club Italiano e alla drammatica delle rovine del Gran tour. Una fotografia, la loro, che riflette i cambiamenti politici e culturali del Paese e il processo di violenta urbanizzazione del paesaggio italiano e racconta l’Italia della provincia e dei margini, delle strade di campagna, dei capannoni, dei manifesti pubblicitari e delle villette a schiera.
Guidi mostra una sensibilità cruda nei confronti delle immagini, spesso aspre, irte, mai nostalgiche o dolci. La sua fotografia smaschera ogni falsa coscienza della rappresentazione paesaggistica e si limita a circoscrivere la realtà senza retorica e senza enfasi.
È chiaro come Da un’altra parte insista sulla componente più concettuale del lavoro di Guidi, e si proponga di ripercorrere più di sessant’anni di carriera attraverso la ricerca di Guidi sulla luce e sul suo rovescio, l’ombra. Ma ciò che si finisce per pensare mentre si esplora questa mostra è quanto ogni fotografia sia un modo per costringere il linguaggio fotografico a un cortocircuito interno, rinunciare a ogni pretesa intellettuale e lasciarsi cadere nel mondo. E di questo si potrebbe anche ridere.