

M ikkel Bolt Rasmussen, professore di estetica politica al Dipartimento di arte e studi culturali dell’Università di Copenhagen, in La controrivoluzione di Trump (2019) e Fasciocapitalismo (2024), produce un’analisi della politica (anche delle immagini) di Trump e in generale dei nuovi movimenti, partiti e leader neofascisti come una politica di alleanza rinnovata tra tardo-capitalismo e fascismo. Il suo obiettivo è trattare il fascismo all’insegna del suo adattamento, dunque come un’ideologia che ha aggiornato tanto gli strumenti quanto il fine. Il neofascismo può servirsi della democrazia liberale (nelle sue possibilità illiberali) per costruire un’utopia più modesta: la riproduzione della società del dopoguerra, più semplice e dunque più comprensibile, più spensierata, profondamente razziale, patriarcale. Insomma, i nuovi fascismi vogliono restringere il campo delle libertà e della partecipazione democratiche per difendere il benessere dei Paesi Occidentali, in un momento di crisi economica, politica, migratoria, bellica, climatica, sanitaria.
Nei testi di Rasmussen non si trova, per programma, un approfondimento della politica danese, più volte invece portata ad esempio per descrivere il “razzismo di Stato liberale” delle democrazie occidentali, nonostante un certo antirazzismo morale: la Danimarca, negli ultimi vent’anni, ha portato avanti politiche estremamente restrittive nei confronti delle persone ritenute straniere (con vere e proprie ghettizzazioni, incarcerazioni coatte, sfruttamento, eradicazione culturale) e per contrastare la migrazione, regolare o irregolare che sia (con addirittura l’esternalizzazione delle pratiche di richiesta d’asilo). Dal momento che la Danimarca viene più volte mobilitata come modello a cui aspirare nel contesto Europeo, in termini anche sociali, soprattutto in quanto avanguardia in sostenibilità e welfare (per le persone danesi), ho deciso di contattare direttamente Rasmussen, per ospitare qui la sua critica.
Ne ho approfittato per chiedergli anche un aggiornamento della sua analisi su Trump, alla luce del secondo mandato. Ne viene fuori una sorta di profezia dei futuri noti (possibili) dei Paesi del Nord Globale e, ovviamente, anche dell’Italia. Il governo Meloni ha approvato una serie di decreti e disegni di legge culminata con il decreto sicurezza (risultato di una decretazione d’urgenza del precedente DDL), che secondo molti osservatori rappresenta un pacchetto repressivo verso il dissenso e oppressivo verso le persone marginalizzate. Per combattere le realizzazioni storiche del neofascismo nazionale, bisogna studiare le realizzazioni storiche in altri Paesi.
Possiamo raccontare questo sviluppo storico come la storia di una straordinaria conquista del movimento operaio occidentale, come fa ad esempio Geoff Eley in Forging Democracy: The History of the Left in Europe, 1850-2000 (2002). Ma è, ovviamente, anche la storia di come il movimento operaio dimenticò più o meno rapidamente la violenza razziale nelle colonie e il legame tra questa violenza e quella fascista in Europa. Aimé Césaire e molti altri militanti anticoloniali cercarono disperatamente ‒ spesso dall’interno dei partiti comunisti delle nazioni dell’Europa occidentale ‒ di affermare che la spinta rivoluzionaria doveva affrontare due problemi e non solo uno. Lo sfruttamento era certamente l’alfa e l’omega, ma la questione coloniale non poteva essere ignorata e doveva anch’essa essere affrontata. Il fascismo era stato sconfitto in Europa ‒ e questo era ovviamente fondamentale ‒ ma era un errore considerare il fascismo come un’eccezione storica: esisteva un legame diretto tra la barbarie delle colonie e la violenza dei regimi fascisti dell’Europa tra le due guerre. Analizzare questo legame era cruciale.
L’antifascismo “limitato” (nell’originale “limited anti-fascism”, ndr) che prevalse nell’Europa occidentale dopo il 1945 non collegò il fascismo come fenomeno politico alla persistenza della violenza razziale-coloniale nelle colonie, nelle ex colonie indipendenti e nelle metropoli occidentali, compresa la feroce opposizione ai movimenti anticoloniali. La prospettiva antinazionalista e internazionalista, cuore del marxismo rivoluzionario, fu soppiantata da vari tipi di nazionalismo. È questa una ragione storica per cui fu così facile per la maggior parte dei partiti socialdemocratici dell’Europa occidentale abbandonare ogni forma di solidarietà internazionale, sia in tempi di crisi economica sia in tempi di crescita.
Il periodo dalla fine degli anni Settanta in poi è stato caratterizzato da un’economia in declino nell’Europa occidentale, rispetto al boom del dopoguerra. L’epoca della globalizzazione neoliberale ha visto brevi fasi di crescita seguite da numerose crisi. Guardando da lontano e concentrandosi sulla riproduzione sociale, tutto il periodo dalla fine degli anni Settanta appare come un lento declino, anche in economie come quella danese. Un argomento brutalmente “materialista” potrebbe essere che, dopo un periodo di forte crescita negli anni Cinquanta e Sessanta, durante il quale l’economia danese ‒ come molte altre in Europa occidentale ‒ era in grado di integrare lavoratori migranti, l’economia in crisi della globalizzazione neoliberale è stata un’economia dell’espulsione o dell’assorbimento differenziato, in cui solo alcuni lavoratori stranieri più qualificati erano benvenuti, mentre molti altri no.
Il primo cambiamento significativo nel contesto danese è avvenuto a metà degli anni Novanta: mentre rappresentanti della borghesia danese, tra cui i leader delle organizzazioni imprenditoriali nazionali, continuavano a sostenere la necessità di manodopera migrante, i politici iniziarono a opporsi. Inizialmente erano partiti marginali dell’estrema destra a opporsi a ciò che loro chiamavano “frontiere aperte” ‒ benché la Danimarca non abbia mai avuto frontiere aperte e, trovandosi nel Nord dell’Unione Europea, abbia ricevuto un numero significativamente più basso di rifugiati e migranti ‒, ma ben presto anche i partiti del centrodestra adottarono questa linea. Dopo alcune iniziali resistenze tra i leader socialdemocratici della vecchia generazione, anche il Partito socialdemocratico danese cominciò a competere per il voto razzista. Gli ultimi 25 anni sono stati un lungo spostamento verso destra.
Oggi è impossibile distinguere la posizione sull’immigrazione del Partito popolare danese (di stampo fascista) da quella dei socialdemocratici. Sono completamente allineati. E ciò non è un caso: è stata una strategia esplicita del Partito socialdemocratico adottare ogni proposta del Partito popolare danese, anche le più folli. Elettoralmente ha funzionato: oggi il Partito popolare danese ha meno del 5% dei voti, mentre in passato aveva oltre il 25%. Per decenni il Partito popolare danese ha parlato insistentemente di auto bruciate, pompieri attaccati e ragazze danesi stuprate da uomini musulmani. Oggi sono i socialdemocratici a portare avanti quella retorica, stigmatizzando continuamente gli “stranieri” e dipingendoli come una minaccia al futuro del Paese, arrivando perfino a suggerire che costituiscano un esercito segreto di infiltrati.
Nel 2024, Frederik Vad, portavoce del Partito socialdemocratico sull’immigrazione, ha annunciato “un nuovo fronte nella politica migratoria” con l’obiettivo di combattere “gruppi di immigrati che minano a destabilizzare la società danese dall’interno”. Se fino ad allora i socialdemocratici avevano almeno cercato di distinguere tra “immigrati ben integrati” e “indesiderabili”, Vad ha abbandonato questa distinzione, dichiarando che non si può mai essere sicuri che un immigrato abbia realmente adottato i valori danesi. Anche se un immigrato conduce apparentemente “una vita normale”, facendo il medico o il poliziotto, come possiamo essere certi che non stia in realtà usando la sua posizione per minare la società danese?
Una delle sfide poste da fenomeni politici come Trump, nel 2016 e ora di nuovo nel 2024-2025, è che egli è chiaramente un fascista – la sua politica è un ultranazionalismo palingenetico, nei termini di Roger Griffin – ma non rientra in tutte le caratteristiche che comunemente associamo ai movimenti fascisti dell’epoca tra le due guerre. È quindi importante sviluppare nuovi concetti per descrivere il nuovo fascismo, per cogliere ciò che c’è di nuovo nel fascismo contemporaneo. Per questo dedico un intero capitolo alla lettura del discorso inaugurale di Trump in La controrivoluzione di Trump. Cerco di analizzare i tropi fondamentali della sua visione politica, per quanto incoerente possa apparire. Questa analisi ravvicinata si radica in un’analisi di un processo politico ed economico più ampio, caratterizzato da una lunga crisi delle economie dei Paesi avanzati, soprattutto degli Stati Uniti. Mi rifaccio a Ernst Mandel e Loren Goldner, e descrivo gli ultimi 50 anni come un lungo atterraggio forzato economico, in cui il boom del dopoguerra è stato sostituito dalla globalizzazione neoliberale sotto forma di delocalizzazione, privatizzazioni, ritorno del lavoro precario e crescita del credito e del debito.
Le soluzioni proposte da Trump sono guerre commerciali e protezionismo, ma ancora di più l’attacco a specifici gruppi di persone identificati come nemici della comunità nazionale. Make America Great Again è la visione di un popolo minacciato che deve tornare forte attraverso l’esclusione e il ripiegamento su sé stesso, politicamente, culturalmente ed economicamente. I nemici di questa comunità sono gli stranieri, dai messicani ai cinesi, ma anche i “leftist” e le persone transgender, chiunque possa essere rappresentato come una minaccia alla supremazia maschile bianca o che faccia sentire insicuri gli uomini bianchi.
Nel libro, affianco alle analisi del neoliberismo anche spunti da varie generazioni di analisi marxiste del fascismo, che sottolineano la connessione tra capitalismo come sistema politico-economico e totalità sociale, e fascismo come movimento politico e culturale che emerge in situazioni di crisi per evitare un cambiamento socio-materiale – in altre parole, per evitare una rivoluzione. La dimensione controrivoluzionaria di Trump è diventata ancora più evidente da quando ho scritto La controrivoluzione di Trump. Ricordiamo quanto furono grandi le proteste dopo l’uccisione di George Floyd nell’estate 2020: sono state le più estese proteste nella storia americana degli ultimi decenni. Le immagini della stazione di polizia in fiamme a Minneapolis hanno profondamente spaventato la classe dirigente statunitense. Più di duemila grandi città sono state teatro di manifestazioni e rivolte. Interi quartieri sono stati liberati dalla polizia. È stata una protesta che ha messo in discussione l’ordine dominante. Come ha descritto anche Idris Robinson, la folla che ha partecipato alle proteste era molto più eterogenea rispetto al passato. Occupy era un movimento composto perlopiù da studenti bianchi delle grandi città; BLM (Black Lives Matter) nel 2013 e 2014 era principalmente afroamericano. Le proteste del 2020 sono state sicuramente guidate da neri americani, ma hanno coinvolto una moltitudine di persone. La rivolta per George Floyd ha mostrato la possibilità di una rottura radicale. Ogni analisi della rielezione di Trump nel 2024 deve tenere conto di quella rivolta.
Seguendo Karl Korsch e Amadeo Bordiga, in La controrivoluzione di Trump descrivo la politica di Trump come una controrivoluzione preventiva, volta a far deragliare una potenziale rivoluzione. Il progetto è bloccare la formulazione di una nuova visione. Impedire che prenda forma e diventi un’alternativa. Non siamo ancora a quel punto; non abbiamo un movimento rivoluzionario, e difficilmente sappiamo cosa significhi oggi “rivoluzione”, né teoricamente né praticamente. Questo è, naturalmente, uno dei maggiori problemi. Ma il secondo mandato di Trump serve soprattutto a evitare che ciò accada, a impedire l’emersione di un’altra partizione del sensibile, come direbbe Jacques Rancière.
Il contributo di Trump al movimento controrivoluzionario è che esiste una sorta di contrappeso integrato nella democrazia nazionale che permette l’introduzione di uno stato d’emergenza. Per questo non basta rispolverare un antifascismo d’altri tempi che si oppone al fascismo e alla democrazia nazionale. Dobbiamo anche parlare di capitalismo – come ha detto emblematicamente Horkheimer nel 1939 – e di anticapitalismo. Ecco perché insisto nell’includere l’intero nuovo ciclo di proteste dal 2011 in poi. Una delle costanti di queste proteste è il rifiuto della violenza poliziesca. Molte proteste sono scoppiate dopo l’uccisione da parte della polizia dell’ennesima persona proletaria. Abbiamo una sequenza che va da Mohamed Bouazizi in Tunisia nel 2010 a Mark Duggan in Inghilterra nel 2011, da Eric Garner negli Stati Uniti nel 2014 a George Floyd nel 2020, Giovanni López in Messico nello stesso anno, fino a Nahel Merzouk in Francia nel 2023. Le nuove proteste rifiutano l’apparato repressivo dello Stato. Anche perché, più le economie si restringono, più devono controllare chi è destinato a sopravvivere ai margini delle stesse. Oggi, sempre più proletari si scontrano direttamente con lo Stato.
La paura del comunismo giocò un ruolo importante per Mussolini e Hitler. Ma mentre il fascismo italiano riuscì ad assorbire buona parte dell’impulso rivoluzionario e a parassitarlo, il nazismo tedesco era finale [Rasmussen scrive letteralmente “was final”: intende dire che giunse al potere alla fine di un processo di crisi durante il quale l’impulso rivoluzionario era già parzialmente esaurito, ndr] e dovette confrontarsi con una profonda crisi economica. Ma allora come oggi il fascismo è un fenomeno della sovrastruttura, cioè si manifesta soprattutto come progetto politico-culturale. Ed è per questo che oggi è così politicamente efficace. La lunga depoliticizzazione neoliberale, per cui la democrazia rappresentativa nazionale è stata svuotata di contenuto e trasformata in amministrazione, fornisce un terreno fertile ai nuovi fascisti, che – come pochi altri – sanno mobilitare elettori che faticano a vedere differenze tra i partiti tradizionali, che da decenni si alternano nell’imporre politiche di austerità. Oggi, solo i fascisti riescono ad attivare le masse.
È ciò che vediamo nella retorica stranamente autoerotica che Trump articola costantemente: Trump è ricco quindi può rendere forte l’America; l’America è forte perché Trump è forte e sa fare buoni affari; gli americani amano Trump perché è forte; gli altri stanno imbrogliando l’America, quindi Trump deve ripulire e costruire muri; Trump è accusato di tutto perché gli altri vogliono mantenere l’America debole, ecc. L’America è la comunità immaginaria che permette a Trump di unire gli opposti. Riesce a rappresentare sia gran parte della classe operaia americana, sia quella che Davis ha chiamato «classe media lumpen», che trae reddito da immobili, casinò, compagnie di sicurezza e prestiti privati, e ovviamente parti significative della classe capitalista come quella a capo dell’industria dell’energia, delle armi e ora della tecnologia. Parla a tutti quei lavoratori che si identificano nell’immagine del lavoratore bianco, anche se non sono razzializzati come bianchi.