T
ra il 1966 e il 1967 lo scrittore palestinese Mourid Al-Barghouti si trasferisce in Egitto per completare il suo percorso universitario. Gli mancano pochi esami e, a Ramallah, la madre lo aspetta, impaziente di vedere finalmente l’unico dei suoi figli laurearsi. Nelle prime pagine del suo testo più celebre, Ho visto Ramallah (2003), emerge da subito un’immagine familiare: quella delle pareti di casa, dove – a università terminata – si appende il diploma in bella mostra. Ma nel giugno 1967 ha inizio una nuova guerra, passata poi alla storia nel mondo arabo come Naksa, ovvero ‘ricaduta’. Israele occupa anche i territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, aggravando la crisi dei rifugiati iniziata con la Nakba del 1948: centinaia di migliaia di palestinesi sono nuovamente sfollati.
Mi consegnarono il diploma in Lingua e Letteratura inglese, ma non avevo più una parete a cui appenderlo. La città era caduta e non avrei mai potuto tornarvi.
Ho visto Ramallah è la storia del ritorno, dopo trent’anni, dell’ormai adulto Al-Barghouti nella sua città natale. Un ritorno segnato dalla sofferenza di chi ha vissuto la
ghurba, l’esilio.
Una volta che l’hai provata, ne resti segnato per sempre. La
ghurba “è come un’asma”, come una malattia di cui si inizia a soffrire e dalla quale non si può guarire. Introduce nell’esistenza una dimensione tragica, priva la vita di una casa cui tornare, ne fa un ricordo doloroso e inesorabile, nonché un dovere di memoria da custodire.
Elisabetta Bartuli in The Passenger. Palestina (2023), sottolinea come, “nonostante le enormi diversità nelle condizioni di vita, di contesto amministrativo ed economico di cui raccontano” i romanzi degli scrittori palestinesi presentino caratteristiche comuni che li rendono “un unicum compatto e coeso all’interno della letteratura araba”. Ecco: la casa, come luogo simbolico di identità e appartenenza, è precisamente uno dei topoi che danno coerenza a questo unicum; un motivo ricorrente che la letteratura palestinese ha contribuito, insieme ad altri, a consolidare, e attraverso cui si esprimono significati che arrivano fino a questi giorni.
La ghurba, l’esilio, introduce nell’esistenza una dimensione tragica, priva la vita di una casa cui tornare, ne fa un ricordo doloroso e inesorabile, nonché un dovere di memoria da custodire.
Nel tema della diaspora, la
casa diventa simbolo di quell’intimità familiare – fatta di oggetti, gesti quotidiani, odori – che l’occupazione e la guerra hanno interrotto in modo fulmineo e traumatico
. Con fatica si riesce a immaginare una simile condizione: da un momento all’altro, senza preavviso, abbandonare la propria casa senza potervi più fare ritorno.
Umm ‘Issa nei suoi ultimi giorni di vita non parlava che di un’unica cosa: il tegame di zucchine. Aveva dovuto abbandonare casa sua, nel quartiere Qatamùn a Gerusalemme, senza avere il tempo di spegnere il fuoco sotto il tegame di zucchine.
Elias Khoury, recentemente scomparso, è stato uno scrittore e intellettuale libanese tra i più autorevoli del mondo arabo. Il suo romanzo,
La porta del sole (2004), è stato definito un’epopea del popolo palestinese. Intorno alla vicenda principale e ai suoi protagonisti si affollano numerose voci e storie. E in molti di questi racconti – anche nei più brevi, affidati a personaggi secondari – si rincorrono immagini di case abbandonate in tutta fretta.
Sono andato nella casa […]. Era deserta. Sono entrato. Delle coperte per terra, dei sacchi di plastica, delle pentole e odore di cibo ammuffito. Come se avessero sgomberato in fretta e furia, senza tempo sufficiente per organizzare il viaggio. […] Sono entrato e mi sono reso conto che stavo piangendo. Ero nel mezzo del nulla, in mezzo alle lacrime. E ho capito che era perduta.
Nella letteratura palestinese delle origini, il
topos della casa è centrale nel raccontare il trauma dell’esilio e della perdita inflitti dalla
Nakba. In questa fase, è spesso ancora il fulcro di una nostalgia nella quale struggersi. Della propria casa, si ha nostalgia di tutto. Perfino “della muffa” che ne ricopriva le pareti. E alla casa si desidera soltanto fare ritorno. Anche se ne fosse rimasta solo una pietra.
Della propria casa, si ha nostalgia di tutto. Perfino “della muffa” che ne ricopriva le pareti. La casa non è un’idea astratta. Non è una metafora, è questo luogo fatto di cose concrete che si sono perdute.
Ghassan Kanafani è stato tra i maggiori esponenti della narrativa della resistenza, assassinato nel 1972 a Beirut da un’autobomba del Mossad. Nel suo
Ritorno a Haifa (2001), Said e Safiyya sono una coppia palestinese che, dopo vent’anni di esilio forzato, torna a Haifa: la città da cui erano stati cacciati e nella quale avevano dovuto abbandonare il figlio neonato, Khaldun. Quando tornano, scoprono che il figlio è stato adottato da un’ebrea sopravvissuta all’Olocausto, che ora vive nella casa che un tempo era loro. Il figlio, che ora si chiama Dov, milita nell’esercito israeliano, e rifiuta ogni legame con i suoi genitori naturali.
Poco prima che il racconto sveli questa sua sconvolgente verità, è descritto il momento in cui Said e Safiyya salgono le scale della loro vecchia casa. Said non vuole dare alla moglie, e neppure a sé stesso, “la possibilità di osservare quelle piccole cose che – lo sapeva – lo avrebbero commosso: il campanello, il pomello di ottone alla porta, gli scarabocchi di matita sul muro, il contatore dell’elettricità, il quarto scalino rotto nel mezzo…”.
La casa non è un simbolo, non è un’idea astratta. Non è una metafora, è questo luogo fatto di cose concrete che si sono perdute. Entrando, Said riesce ancora a vedere in casa sua “molte cose che un tempo gli erano state familiari e che anche quel giorno continuava a considerare tali: cose intime, private”, che mai avrebbe pensato che qualcuno potesse toccare o guardare: una fotografia di Gerusalemme, un piccolo tappeto di Damasco. Said ritrova “le sue cose” ma, guardandole, le vede mutate. Come se a osservarle fossero due paia di occhi diversi: quelli del passato e quelli di un presente che non gli appartiene più.
Lo stesso accade, in La porta del sole, a Umm Hasan.
Umm Hasan, come tutti coloro che sono tornati a vedere le loro case, diceva: “Ogni cosa era al suo posto, ogni cosa era rimasta com’era. Persino la brocca di terracotta.”
— La brocca.
— L’ho trovata qui. Non la uso. La prenda, se la vuole.
— No, grazie.
Il passaggio dalla casa
abitata alla casa
occupata segna una svolta anche nei significati.
Da simbolo di perdita e sradicamento – da cui deriva anche il più famoso simbolo delle chiavi lasciate sulla porta – la casa diventa un
topos per esplorare la realtà dell’occupazione e della guerra e, da qui, la condizione di estraneità e d’incertezza esistenziale, la frammentazione identitaria, a cui il popolo palestinese è stato condannato. Lì, proprio nel perimetro della casa, dove si tocca “l’essenza più profonda della vita” (Nour Abuzaid), qualcun altro si è insediato con la forza.
Il passaggio dalla casa abitata alla casa occupata segna una svolta anche nei significati. Lì, proprio nel perimetro della casa, qualcun altro si è insediato con la forza.
È Israele che “con la scusa del cielo, ha occupato la terra”. Il contatore dell’elettricità è al solito posto, la brocca e il tappeto di Damasco anche. Eppure, non si riesce a riconoscerli. Come accade quando, a forza di guardare troppo a lungo una cosa, o di ripetere insistentemente una parola, se ne perde l’essenza: il suono si svuota, l’immagine si spegne.
Ora anche chi riesce a tornare a casa si sente fuori posto. Un estraneo.
In La porta del sole c’è un passaggio importante in cui Nahila, rimasta a vivere nel suo villaggio diventato territorio israeliano, si oppone con forza al marito Yunis, che invece è un combattente della resistenza e vive in clandestinità dentro le grotte. Alla retorica del sacrificio e del martirio, alle storie di eroismo, che trasfigurano la sofferenza vissuta in mito, Nahila rivendica le vere storie. Quelle che raccontano che le persone sono divenute estranee persino a sé stesse. E che, pur non impugnando le armi, si fanno portavoce di una resistenza più silenziosa e quotidiana.
Tu non sai niente. Secondo te la vita sono queste distanze che attraversi per arrivare qui col tuo odore di foresta. […] Che storie sono queste dell’odore di lupo, del profumo del timo selvatico, dell’olivo romano? Sai chi siamo?
La vita di coloro che sono rimasti a vivere nella propria casa, in regime di occupazione, è costantemente segnata da un senso di precarietà. Anche il rimanere diventa una forma di esilio. Uscire di casa non è un gesto neutro, ma può diventare una scommessa sul ritorno e un desiderio di tornare “per intero”, senza scontare la dispersione dell’identità, la frammentazione del sé che l’occupazione impone ogni giorno.
La vita di coloro che sono rimasti a vivere nella propria casa, in regime di occupazione, è costantemente segnata da un senso di precarietà. Anche il rimanere diventa una forma di esilio.
Lo scrive con spietata chiarezza Maya Al-Hayat, poetessa palestinese nata a Beirut e cresciuta a Gerusalemme Est, oggi tra le voci più incisive della letteratura contemporanea, capace di raccontare con feroce semplicità l’intimità stravolta del vivere sotto l’occupazione.
Ogni volta che esco di casa
è un suicidio
e ogni ritorno, un tentativo fallito. […]
Voglio tornare a casa intera.
Talvolta non resta nemmeno una casa a cui tornare. Solo tende: orizzonte ultimo dell’esilio, dove l’idea stessa di abitare si riduce a un’ombra di stoffa esposta al vento. Scrive Yousef Elquedra, in una poesia dedicata agli accampamenti della zona umanitaria di al-Mawasi:
La tenda è un corpo fragile […]
La tenda non è una casa
è una promessa di attesa
e ogni impeto di vento
ti ricorda che sei di passaggio
su una terra che non porta il tuo nome.
Anche la tenda, come la casa, è esposta poi al rischio dell’esproprio. “Ci rendete stranieri nella nostra terra” si sente dire nel documentario
No Other Land (2024) di Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal. Anche se “la distanza tra due case è a una fila di alberi”, ci si sente trattati come estranei e persino la lingua madre, che è “tutto ciò che resta a colui che è privato della sua patria” (
Friedrich Hölderlin), punto massimo di contatto con le proprie radici e “casa” simbolica` alla quale tornare quando il resto è perduto, è costantemente posta sotto assedio.
Lasciatemi parlare la mia lingua Araba
prima che occupino anche quella.
Lasciatemi parlare la mia madrelingua
prima che colonizzino anche la sua memoria.
Così la poetessa e attivista Rafeef Ziadah, nota per la sua poesia performativa, in cui parole e musica si fondono in un atto di resistenza per denunciare l’oppressione e l’oblio.
Mia madre è nata sotto un albero di ulivo
su una terra che dicono non essere più mia.
L’ulivo: più di ogni altra, la pianta della Palestina. Cresce nei giardini delle case, le famiglie ne tramandano la cura da generazioni. Le olive si offrivano in dono; con l’olio, le nonne bagnavano il pane per sfamare i nipoti. E con lo stesso olio – fonte di ogni cura – si curavano le malattie.
Noi viviamo di olio. Siamo il popolo dell’olio. Loro invece tagliano gli olivi e piantano palme. Hanno sradicato gli olivi. Non so perché odiano gli olivi e piantano le palme.
(La Porta del Sole).
Gli olivi si scorgono anche sullo sfondo di un celebre video, diventato virale, in cui la giornalista e attivista Muna Al-Kurd, ferma con i piedi nei confini del suo giardino, grida contro un colono israeliano: “Stai rubando la mia casa.” E il colono risponde freddamente: “Perché mi urli contro? Se non lo faccio io, lo farà qualcun altro”. Qualcuno potrebbe obiettare: è la guerra. Ma questa è una guerra che mira a cancellare le tracce, a riscrivere la geografia della memoria, e che non si accontenta di distruggere, ma vuole sradicare. Estirpare con la forza cieca di una ruspa. La stessa che ancora campeggia, inquietante, come immagine-simbolo sulla locandina di
No Other Land.
Talvolta non resta nemmeno una casa a cui tornare. Solo tende: orizzonte ultimo dell’esilio, dove l’idea stessa di abitare si riduce a un’ombra di stoffa esposta al vento.
Nel tentativo di spezzare l’intreccio tra le persone e i luoghi, tra la lingua e le radici, si inserisce anche il grottesco video generato dall’intelligenza artificiale e diffuso da Trump, dove Gaza è ridotta a un resort. Un luogo artificiale su un lungomare costellato di palme. Palme al posto degli olivi. Ma gli alberi, in Palestina, non sono solo alberi. Sono “costole d’infanzia
”, come scrive
Mahmoud Darwish. E la rimozione dell’olivo non è solo distruzione agricola: è simbolo di perdita radicale. È la cancellazione della storia, della terra e soprattutto dei diritti che vi erano radicati. In
La porta del sole Yunis attraversa l’oliveto di Tarshìha e si rende conto che il “suo” olivo romano, testimone di ogni momento importante della sua vita e di quella dei suoi avi, non c’è più. Con l’albero antichissimo, cade anche la memoria viva della terra.
Yunis indossò il lutto per l’albero.
Un sentimento di disorientamento, impotenza politica e frustrazione emerge quando si cerca di comprendere la realtà che stiamo vivendo. La maggior parte di noi non sa cosa possa significare “mettersi la guerra in bocca come fosse una gomma da masticare” quando sei poco più che un ragazzo. Questa distanza non si risolve informandosi o nel tentativo di partecipare al dibattito pubblico. Specialmente di fronte alla questione palestinese, la distanza tra ciò che si legge e ciò che realmente si riesce a comprendere sembra incolmabile. Per questo motivo, la letteratura diventa una risorsa, una “porta del sole” verso la complessità del mondo. Un modo per affinare empatia e consapevolezza, per esplorare ciò che travalica il nostro vissuto personale.
La letteratura restituisce profondità a ciò che il discorso mediatico tende a semplificare e uniformare. Scrive Mourid Al-Barghouti che “a forza di sentire certe espressioni, sui giornali e sulle riviste”, si finisce per pensare ai Territori Occupati “come a un luogo immaginario alla fine del mondo”. E ci si convince che non esista nessun modo per raggiungerlo. Al-Barghouti rivendica con forza la necessità di non ridurre la Palestina a una pura astrazione. Ci ricorda come i palestinesi siano prima di tutto degli individui. L’occupazione ha creato “intere generazioni che non hanno un luogo in cui ricordare suoni e profumi”, generazioni “che non hanno mai coltivato, né costruito, né commesso neppure il più piccolo errore umano nella propria terra”, e ha trasformato la patria in un simbolo inchiodato al passato. Ma la patria non è un arancio, non è un ulivo. La patria è fatta di persone.
“A forza di sentire certe espressioni, sui giornali e sulle riviste”, alla fine si finisce per pensare ai Territori Occupati “come a un luogo immaginario alla fine del mondo”. E ci si convince che non esista nessun modo per raggiungerlo.
Un popolo, scrive ancora Al-Barghouti, cui sono stati tolti diritti e futuro, e a cui è stata “bloccata l’evoluzione delle società e delle vite”, impedendo lo sviluppo. La Palestina non è (o non è solo) “la questione inserita nei programmi dei partiti politici, non è un argomento di discussione”. Non è “la catenina che adorna il collo delle donne in esilio”. Non è “la prima pagina di apertura di un giornale”. Non è l’anguria esposta a una manifestazione. È invece un luogo “concreto come uno scorpione”, che ha “i suoi colori, una temperatura, e arbusti che crescono spontanei”. E gli insediamenti non sono costruzioni “fatte da bambini con i Lego”. Sono invece la diaspora palestinese.
In La porta del sole c’è un passo in cui si dice che gli scrittori e gli intellettuali non combattono, ma piuttosto “osservano la morte, scrivono, e credono di morire”. È vero, la guerra ci passa accanto e noi, forse, ci “aggrappiamo a una poesia”. Pure, questa rimane ancora una forma importante per la verifica delle nostre qualità umane. Una risposta che possiamo darci alla domanda “Se questo è un uomo”.