

È il 2010, siamo nello Smithsonian National Zoological Park di Washington (D.C.). Gli studiosi del comportamento animale Preston Foerder e Diana Reiss, insieme al loro gruppo di ricerca, stanno esaminando la capacità degli elefanti di risolvere problemi. Sono stati messi alla prova tre elefanti asiatici, due femmine adulte e un giovane maschio: il compito che gli è stato assegnato consiste nell’ottenere della frutta posta fuori dalla loro portata, dall’altro lato delle sbarre del recinto interno, utilizzando dei bastoni. Non dovrebbe essere un test così difficile per questi pachidermi: hanno cervelli complessi e di grandi dimensioni, vivono in società intessendo relazioni con gli altri membri, sanno usare strumenti e vantano molte altre abilità. Invece, i tre esemplari hanno adoperato i bastoni per grattarsi, colpire luoghi o oggetti e per forzare le porte, ma non hanno mai tentato di raggiungere il cibo. È possibile che non siano abbastanza intelligenti da capire come manovrare un bastone per avvicinare e mangiare un frutto?
Per rispondere a questa domanda è necessario porsene un’altra: cos’è l’intelligenza e in quali modi è possibile esplorarla negli animali umani e non?
Definire l’intelligenza
Quando il terreno è stato sondato in ambito psicologico, la definizione è cambiata col tempo per sostenere una visione multifattoriale. In altre parole, l’intelligenza non poteva essere ridotta a un’abilità unica e monolitica, c’era bisogno di restituirne la complessità. Questo ha portato nel corso del Novecento a fare emergere diverse teorie sull’intelligenza. Charles Spearman, ad esempio, propose un modello bifattoriale, in cui è individuabile un fattore generale, che riflette un’abilità comune a tutte le capacità cognitive e interviene in ogni prestazione intellettiva, e fattori specifici, legati a particolari compiti cognitivi, come quelli motori, verbali, numerici o spaziali. Successivamente, Louis L. Thurstone individuò sette abilità mentali primarie, tra cui ritroviamo ragionamento, velocità percettiva e abilità verbale. Negli anni Ottanta, Robert Sternberg introdusse la teoria triarchica dell’intelligenza (analitica, creativa e pratica), mentre Howard Gardner formulò la teoria delle intelligenze multiple, secondo cui esisterebbero diverse forme di intelligenza – dalla linguistica alla musicale, dalla interpersonale alla naturalistica – presenti in ciascuno di noi in misura variabile.
Quando parliamo di intelligenza, parliamo di tutte le specifiche modalità di soluzione di problemi specifici che gli organismi biologici incontrano nelle loro nicchie.
Sotto la spinta della selezione naturale è difficile sviluppare un solo meccanismo che serva ad affrontare qualsiasi tipo di problema, poiché gli animali devono andare incontro a situazioni complesse, spesso molto peculiari e vincolate. Uno scoiattolo che deve raggiungere la propria tana, ad esempio, avrà bisogno di un meccanismo di memoria spaziale con determinate caratteristiche: questa capacità, sviluppata in risposta a un particolare problema, potrà essere declinata in altre situazioni in cui è utile; l’orientamento spaziale, evoluto milioni di anni fa, potrà essere adoperato per ragioni differenti. Del resto, noi ricordiamo dov’è il panettiere più vicino al luogo di lavoro, la posizione della casa dei nostri genitori e riusciamo a ritrovare la borsa in cui abbiamo lasciato le chiavi dell’automobile. Usiamo la stessa capacità per raggiungere scopi differenti.
Potremmo concepire l’intelligenza come la capacità di risolvere problemi, sempre considerando che questi ultimi sono diversi a seconda della specie e che tutte queste intelligenze si sono evolute insieme alle strutture anatomiche che le ospitano.
Sebbene l’utilizzo di definizioni generali possa essere limitante in un ambito così proteiforme, potremmo concepire l’intelligenza come la capacità di risolvere problemi, sempre considerando che questi ultimi sono diversi a seconda della specie e che tutte queste intelligenze si sono evolute insieme alle strutture anatomiche che le ospitano.
Il cervello non è un computer
È da tempo che per spiegare il funzionamento del cervello quest’ultimo viene paragonato a un computer. La metafora informatica è il fulcro di Computer e cervello, libro del 1958 scritto da John von Neumann, matematico e fisico, tra i padri dell’informatica, ma si possono ritrovare le radici di questa visione già nelle macchine cartesiane. Il cervello, però, è frutto dell’evoluzione, non è un dispositivo digitale, e il parallelismo con un mondo di chip e linguaggio binario oggi sta rivelando tutte le sue problematicità. Assimilando il cervello a un computer si è cercato di spiegare il suo funzionamento, descrivendolo come un processo semplice e lineare, una lunga fila di tessere di domino che cadono in sequenza, quando nella realtà siamo davanti a reti neurali complesse e interconnesse, collegate al mondo esterno e con esso in continuo dialogo per produrre azioni.
Eppure, la metafora informatica può essere ancora utile in alcuni casi. Sono Lars Chittka, ecologo ed etologo, e Jeremy Niven, neurobiologo evoluzionista, a coglierla nuovamente in una review pubblicata nel 2009 su Current Biology, intitolata Are bigger brains better?.
Paragonare il cervello a un computer significa spiegarne il funzionamento come un processo lineare, quando abbiamo a che fare con reti neurali complesse e interconnesse, collegate al mondo esterno e con esso in continuo dialogo.
Le dimensioni non contano
Per molto tempo la comunità scientifica ha cercato di correlare le dimensioni del cervello con le capacità cognitive: si è passati dal misurare la grandezza assoluta dell’organo al calcolare l’indice di encefalizzazione, che mette in relazione il peso del cervello con il peso del corpo dell’animale. Il valore che si ottiene per gli esseri umani è il più alto nel regno animale. Probabilmente era la dimostrazione che attendevamo per ricevere ufficialmente il riconoscimento di animale più intelligente, ma abbiamo cantato vittoria troppo presto.
Quando la scienza ha provato a verificare se la velocità di apprendimento, una misura ragionevole dell’intelligenza di un animale, corrispondesse a un alto indice di encefalizzazione, i nostri facili entusiasmi sono subito stati raffreddati: le performance delle api superavano quelle di pesci, uccelli e mammiferi, inclusi gli esseri umani. Sono proprio gli insetti a mettere in qualche modo in crisi la relazione tra intelligenza e dimensioni del cervello, mostrando che strutture sociali e capacità cognitive non banali sono possibili anche con cervelli molto piccoli. Ad esempio, i bombi sanno imparare compiti complessi osservando i propri conspecifici e le vespe cartonaie sanno riconoscere le proprie compagne di nido dai loro volti.
Gli insetti hanno contribuito a mettere in crisi la relazione tra intelligenza e dimensioni del cervello, mostrando come strutture sociali e capacità cognitive articolate siano possibili anche con cervelli molto piccoli.
Una questione di cablaggio e struttura
Diventa, quindi, quasi una questione di cablaggio, in cui abbiamo bisogno di più cavi, più grandi, per macchine di dimensioni maggiori e con un maggior numero di funzioni che producano anche risultati di qualità più elevata. Un esempio è quello dell’acuità visiva, che è legata alla presenza di un considerevole numero di neuroni: i recettori percettivi, come coni e bastoncelli, sono solo una minima parte di un sistema di visione che richiede molte risorse in fase di processamento degli stimoli ricevuti e un gran numero di neuroni nella retina e in tutte le tappe successive per elaborare il segnale.
“C’è da tener conto che l’intelligenza non è solo dentro le scatole craniche o l’esoscheletro, ma è qualcosa che ha a che fare con il modo in cui l’animale interagisce con il suo ambiente”, chiarisce Vallortigara: “Per esempio gli insetti, che hanno delle limitazioni importanti dal punto di vista del numero di neuroni presenti, data la loro grandezza, risolvono in buona misura i loro problemi di tipo visuo-motorio muovendosi continuamente nell’ambiente: è quello che fa una mosca, per capirci”. Ed effettivamente, se pensiamo alla mosca, non la vediamo quasi mai ferma. Anche quando si posa, dopo pochissimo si rimette in volo. “Quando si guarda una scena complessa, animali come noi ‒ o i primati, in generale ‒ possono cogliere le sue caratteristiche at a glance, cioè con un’occhiata. I bombi non riescono a farlo nel nostro stesso modo, ma raggiungono lo stesso risultato se possono muoversi, se possono volare e fare una scansione della scena. Cos’è meglio o cos’è peggio? Non c’è meglio o peggio: la storia evolutiva di una specie ha fatto sì che, dati i vincoli con cui è stata costruita e quelli posti dal mondo fisico, evolva in un certo modo oppure in un altro. Tutto lì”.
Le dimensioni del cervello di una specie animale possono essere collegate alla durata della sua vita. Animali più longevi dovranno avere un buon numero di neuroni ridondanti perché devono mantenere il funzionamento base del cervello durante il corso dell’intera esistenza, prevedendo che alcuni di questi neuroni andranno naturalmente persi nel corso degli anni e che ne serviranno degli altri che li sostituiscano per le stesse funzioni. Serviranno anche grandi magazzini di memoria, per gestire la complessità della vita di relazione in una società. Ritorniamo così al riconoscimento dei volti: “Di per sé la discriminazione di un volto non è una cosa complicata e può essere raggiunta con un numero di neuroni modesto. Quello che è difficile è tenere a mente un numero elevato di volti individuali, cosa che noi facciamo, perché è il modo con cui noi interagiamo con gli altri. Alcuni calcoli mostrano — e sono sicuramente sottostime — che un adulto riconosce immediatamente, riportandoli alla memoria, qualcosa come cinquemila volti individuali. Non tutte le specie hanno bisogno di riconoscere così tante facce, quindi non avranno neanche un grande numero di neuroni nell’area cerebrale equivalente”.
Animali più longevi devono mantenere il funzionamento base del cervello durante il corso dell’intera esistenza, inoltre necessitano grandi magazzini di memoria, per gestire la complessità della vita di relazione in una società.
Per confermarlo ci sarà ancora molto da studiare: se i vertebrati hanno un’architettura comune e mostrano così tanti adattamenti diversi, gli invertebrati, a un certo punto della loro storia, hanno imboccato strade completamente differenti, non mancando di evolvere in animali dalla straordinaria intelligenza come i polpi, maestri della fuga e del mimetismo, ottimi problem solvers e utilizzatori di strumenti, come gusci di noci di cocco che trasportano e utilizzano come nascondiglio. I polpi hanno un sistema nervoso piuttosto diverso da quello di uccelli e mammiferi: “altre menti” come racconta il filosofo Peter Godfrey-Smith nel libro dal titolo omonimo, con centinaia di milioni di neuroni localizzati soprattutto lungo i loro otto arti e su tutto il resto del corpo. Non abbiamo ancora ben compreso se tra vertebrati e invertebrati ci siano aspetti comuni che possano essere considerati la dotazione base per un’intelligenza complessa. Ricercatrici e ricercatori ci stanno lavorando ed è plausibile che continueranno a farlo ancora per lungo tempo.
A ciascuno il suo Umwelt
Come scrivevo all’inizio, ogni essere vivente ha sviluppato la capacità di risolvere quei problemi che il suo habitat gli ha posto nel corso della sua storia e ha evoluto strutture cerebrali che gli permettessero di farlo. Ciascuno di noi, però, interagisce con il mondo attraverso le lenti della propria percezione. Noi esseri umani abbiamo vista, tatto, olfatto, gusto e udito per cogliere gli stimoli dell’ambiente che ci circonda solo all’interno di determinati intervalli. Riusciamo a percepire le lunghezze d’onda della luce solo se comprese tra i 400 e 700 nanometri circa, il che vuol dire che non vediamo né infrarossi né ultravioletti. Esistono, invece, animali come uccelli, api, rettili e alcuni pesci ossei che riescono a percepire la radiazione ultravioletta, quella tra i 100 e i 400 nanometri, mentre i crotali, temibili serpenti, possono percepire le radiazioni infrarosse, così come le zanzare.
Comprendere la differenza che può intercorrere tra mondi percettivi nelle diverse specie apre a riflessioni sulle modalità in cui queste bolle abbiano plasmato le capacità cognitive degli animali.
Agli inizi del Novecento questa parola era impiegata in ambito sociologico, in riferimento a contesti storico-culturali umani, ma assunse un nuovo significato grazie allo zoologo estone Jakob von Uexküll, tra il 1907 e il 1909. Uexküll non si riferiva solamente all’ambiente in cui vive un animale, ma alla porzione di quell’ambiente che un animale può percepire e sperimentare. Comprendere la differenza che può intercorrere tra mondi percettivi nelle diverse specie apre a riflessioni sulle modalità in cui queste bolle abbiano plasmato le capacità cognitive degli animali e, soprattutto, sulle difficoltà di testare tali abilità tenendo conto di ciascun Umwelt. Se si dovesse esaminare la capacità di un gruppo di bambine e bambini di distinguere un triangolo da un quadrato disegnati con vernici che emettono solo radiazione ultravioletta, lunghezze d’onda non visibili agli umani, il risultato del test ci direbbe che non riescono a discriminare le forme geometriche, quando invece non possono semplicemente vederle.
“Prendiamo il mondo visivo, per noi più semplice da capire, che consiste in primo luogo di oggetti di un qualche tipo, cioè di unità che si segregano rispetto a uno sfondo”, continua Vallortigara: “Questo vale anche per tutti gli animali che hanno sistemi visivi molto diversi dal nostro? Dire che un animale vede l’ultravioletto e l’altro l’infrarosso è interessante, ma fino a un certo punto. Lo è ancora di più capire se i processi fini della mente, dopo il filtraggio periferico, sono simili o diversi”. Analizzare questi meccanismi sembra a prima vista complicato, in realtà esistono già esperimenti che ci vengono in aiuto in questi casi, come verificare se altri animali percepiscono nella nostra stessa maniera le illusioni ottiche, le quali riflettono il funzionamento del nostro sistema percettivo.
Nei pulcini, ad esempio, è possibile riscontrare il completamento amodale, il fenomeno per cui i contorni non visibili di un oggetto parzialmente occluso, coperto, vengono ugualmente percepiti. Dopo alcuni tentativi di dimostrare questo aspetto della percezione con risultati altalenanti, Giorgio Vallortigara e Lucia Regolin hanno progettato un esperimento che riproducesse le condizioni in cui i pulcini in natura avrebbero potuto manifestare il completamento amodale, ossia quando la mamma si allontana e risulta parzialmente coperta da un arbusto o dai fili d’erba. In queste circostanze è impensabile che il pulcino non la riconosca più perché ne vede solo una parte. Si è quindi trattato di tradurre il problema in una condizione che fosse etologicamente sensata.
Nei pulcini è possibile riscontrare il completamento amodale, il fenomeno per cui i contorni non visibili di un oggetto parzialmente occluso, coperto, vengono ugualmente percepiti.
Il futuro degli studi sull’intelligenza animale
Alla fine di questo lungo e articolato discorso, torniamo insieme dagli elefanti dello Smithsonian National Zoological Park di Washington. Davvero non sapevano trovare una soluzione per raggiungere il cibo adoperando un bastone? Ricercatrici e ricercatori decisero di cambiare le carte in tavola e il giovane Kandula mostrò loro che la sua specie avrebbe potuto risolvere anche quel tipo di problema. È bastato fornirgli una scatola quadrata che potesse reggerlo: il pachiderma l’ha spinta fino a posizionarla sotto la frutta ‒ collocata questa volta in alto ‒, vi ha posto le zampe anteriori sopra e così ha potuto raggiungere il cibo con la proboscide, direttamente, senza bisogno di procedere per prove ed errori per impararlo. Sebbene la proboscide sia utilizzata anche per spostare oggetti, i bastoni che gli scienziati avevano proposto nei test precedenti ostacolavano le altre funzioni di quest’organo, importanti per il compito proposto, ossia toccare e annusare il cibo.
Questo ci fa comprendere come le sfide per studiare le intelligenze animali siano molteplici e come, in parte, le stiamo superando abbattendo il muro del nostro antropocentrismo. Prendendo in prestito le parole di Frans de Waal, in questo modo scopriremo tantissimi altri “pozzi magici”, l’insieme delle peculiarità conferite dall’evoluzione alle menti di ciascuna specie animale, alcuni dei quali ancora oltre la nostra immaginazione. Ciò che sicuramente abbiamo imparato è che non ha senso parlare di animali più intelligenti di altri. Ce lo ripete Vallortigara: “Tutti gli animali non intelligenti sono stati spazzati via e sono i rami secchi della storia naturale”.