

T ra gli ultimi anni dell’Ottocento e il primo ventennio del secolo scorso, nell’allora Congo Belga vennero rinvenuti diversi cadaveri apparentemente divorati da una bestia feroce, forse un leopardo. Solo più tardi si scoprì che le ferite non erano opera di animali, ma di uomini: appartenenti alla confraternita segreta Anyoto, questi adepti si travestivano da leopardi ‒ con artigli, rampini, pelli maculate ‒ per simulare l’attacco di una divinità. L’assassinio rituale diventava così un gesto iniziatico: attraverso il travestimento, l’uomo si faceva belva, incarnava un potere più antico, destabilizzava il dominio coloniale con la maschera della bestia. Indossare la pelle di una bestia feroce è forse il gesto più antico del genere umano. Ma ciò che colpisce, oggi, è come questo gesto sia sopravvissuto nel cuore della modernità, non più per evocare animali sacri ma per dare corpo ai fantasmi della nostra infanzia o ai ruoli che quotidianamente recitiamo. L’umano contemporaneo, invece di imitare la natura, imita sé stesso: si traveste da ciò che sogna, da ciò che consuma, da ciò che rappresenta.
Nel suo modo impacciato, ambiguo, tragicamente sincero di performare un ruolo intellettuale, Edoardo Prati non è altro che l’erede di questa logica. Si veste, parla e si atteggia come colui che ha ancora accesso alla scena perduta del sapere e della guida spirituale, quando in realtà il suo gesto ripete una liturgia vuota: il filosofo come cosplay del filosofo, il politico come avatar del potere. Eppure, come i membri della setta Anyoto, anche lui è posseduto da ciò che evoca. Quello che indossa non è solo un abito, ma un personaggio: un costume che lo trasforma e lo condanna a incarnare un ruolo il cui contenuto è ormai spettro.
L’umano contemporaneo, invece di imitare la natura, imita sé stesso: si traveste da ciò che sogna, da ciò che consuma, da ciò che rappresenta.
Nella caccia, il primo rituale di proporzioni cosmogoniche, gli antichi cercavano di riunire la separazione originaria, espiando il peccato dell’omicidio dell’innocente attraverso l’uccisione di altri predatori. Il senso primigenio dell’abito non era quello di proteggere il corpo dagli agenti atmosferici ma piuttosto si trattava di una funzione sacrale atta a garantire il fluire della metamorfosi. Solamente con la nascita della urbanità il vestiario diventò un lontano ricordo delle pelli ancora sporche di sangue che aderivano ai muscoli di uomini invasati da eccitanti e fermentati alcolici.
Ma questa logica ancora attuale ‒ dove il corpo si fa scena e il gesto invoca una potenza assente, il ruolo che travolge chi lo interpreta ‒ non si limita agli intellettuali smarriti o ai politici-attori del nostro presente. Anzi, trova la sua forma più esplicita e spettacolare nel mondo del cosplaying, dove il travestimento non serve a mascherare, ma a rivelare: ciò che l’individuo sente di essere davvero, ciò che ha abitato i suoi sogni d’infanzia, ciò che la vita adulta tende a reprimere. Nel cosplay, l’abito non è un accessorio ma un varco, un medium che permette di incarnare modelli formativi, spesso assorbiti in età precoce, legati al mondo degli anime, dei videogiochi, delle fiabe contemporanee. Come nel rito degli Anyoto, o nelle performance di Edoardo Prati, anche qui si tratta di un passaggio: ma non verso un’alterità animale, bensì verso un sé idealizzato, formato dalla cultura visiva, consumistica e affettiva di un’intera generazione. Il cosplayer non recita un personaggio: lo riattualizza nel mondo reale, ne fa carne viva.
Nel cosplay, l’abito non è un accessorio ma un varco, un medium che permette di incarnare modelli formativi, spesso assorbiti in età precoce, legati al mondo degli anime, dei videogiochi, delle fiabe contemporanee.
Dietro questa dolcezza si intravede però l’ombra di un’ingiustizia: “I fotografi scelgono solo chi ha i cosplay più costosi”, scrive qualcuno. “Molti ti guardano dall’alto in basso”, nota un’altra. Anche in questo mondo fragile e accogliente si insinua la legge crudele della spettacolarizzazione. Le sfilate dei Comicon, con i cosplayer che incarnano i propri idoli fino a diventarne proiezioni viventi – camminata, voce, espressione, costume – ricordano i riti collettivi dei predicatori evangelici americani: eventi di possessione estetica, di guarigione spettacolare. L’immaginario pop si appropria della regia liturgica: la devozione diventa spettacolo, la trasfigurazione si fa cosplay.
E ogni liturgia ha il suo pantheon. Oltre la piazza delle fiere, oltre gli stand pieni di PVC e piume sintetiche, si estende l’Olimpo del cosplay: territorio rarefatto dove dimorano semidivinità digitali, dee dai nomi angelici o ispirati ai JRPG (Japanese Role-Playing Game), avatar viventi del desiderio geek. Qui il cosplay non è più travestimento, ma reincarnazione. I corpi non interpretano: riflettono un ideale sintetico fatto carne. Glass skin, cosce lucide come silicone, seni monumentali, vita da postproduzione. La sessualizzazione non è effetto collaterale: è principio generativo. Non è una strategia, è una liturgia. È il modo in cui il corpo viene offerto, consumato, adorato.
Il cosplay non è soft porn, dicono. È arte. È sorellanza. È self-expression. Ma intorno a questa narrazione si condensa un’erotica sacrale, una forma di culto. Le wishlist su Amazon diventano confessionali. Le dirette Instagram, simulacri di intimità. I follower non amano solo il personaggio: amano l’accessibilità simulata, la promessa remota di una camgirl elegante. È qui che il corpo del personaggio e quello della performer si fondono: si cerca la waifu, ma si consuma la cosplayer.
E non è un caso che i tratti parareligiosi del culto otaku rimandino ad antiche forme di adorazione delle immagini. Le Veneri paleolitiche, ridotte a ventre e seno, come i corpi anime, ipersessualizzati, sintetici. Le statue greche e romane, levigate, perfette, soggette a pratiche sessuali rituali o a violenze nascoste dietro la maschera della venerazione. Uomini e donne che penetravano i simulacri divini, i falli delle statue di Priapo, gli altari che diventavano teatro del desiderio. Forse si tratta di propaganda cristiana, ma il punto è che il sacro e l’erotico, nell’immagine femminile idealizzata, sono sempre stati vicini. Le waifu, come le divinità antiche, sono oggetti di desiderio e di culto, proiezioni dell’immaginario maschile che si riversano oggi sul corpo reale della performer.
Il sacro e l’erotico, nell’immagine femminile idealizzata, sono sempre stati vicini. Le waifu, come le divinità antiche, sono oggetti di desiderio e di culto, proiezioni dell’immaginario maschile che si riversano oggi sul corpo reale della performer.
Oggi gli otaku fanno la stessa cosa, ma in un contesto rovesciato. Non più sopravvivere al gelo e alla fame, ma sopravvivere al vuoto della soggettività. Nella possibilità di penetrare sessualmente i personaggi femminili della loro infanzia ‒ la nurse anime, la maga bambina, la principessa guerriera ‒ non si consuma solo un desiderio erotico: si mette in scena il tentativo di possedere l’infanzia stessa. Di penetrarla come si vorrebbe penetrare la madre. È un’operazione incestuosa, feticistica, regressiva, che tenta di reincantare un tempo perduto erotizzandolo. Non è la pornografia dell’età adulta, ma il culto della fragilità, dell’inespresso, dell’origine che si fa corpo.
Ed è qui che il cosplay, da gesto eccezionale, diventa regime quotidiano. Perché se è vero che il soggetto contemporaneo non agisce più, ma si traveste ‒ allora l’esistenza intera si dà solo nella forma della maschera. La contemporaneità non ha superato il primitivo: lo ha restaurato. L’individuo non si traveste per evadere, ma per ricomporre un’unità perduta. Come la caccia rituale ristabiliva il legame con l’origine del clan, così il cosplay tenta di recuperare l’infanzia – ultimo orizzonte credibile di autenticità. Ma questo ritorno è selettivo. Vi accede solo chi possiede un capitale corporeo, tecnico, economico. La fedeltà al modello esclude la spontaneità. Si diventa ciò che si desiderava essere solo al prezzo di non essere più sé stessi.
La preistoria, in questo senso, non è alle nostre spalle, ma ci avvolge da ogni lato. L’uomo leopardo degli Anyoto e il berserker norreno: sono tutti nostri contemporanei, perché la storia ‒ come processo ‒ si è interrotta, e ciò che resta è il suo cosplay perpetuo. Il cosplay non si limita a manga e cultura pop: ogni performance in cui si indossa un ruolo svuotato di funzione è, in fondo, una forma di costume playing. Le rievocazioni storiche, i cortei religiosi, gli abiti tradizionali, ma anche la vita quotidiana stessa ‒ con i suoi mestieri residuali e i suoi ruoli sociali disattivati ‒ sono tutti atti di cosplay inconsapevole. Continuiamo a recitare parti come il libraio, l’artigiano, l’insegnante, il padre, non perché siano necessarie, ma per sostenere l’illusione della normalità in un mondo che ne ha già cancellato la funzione.
In questo paesaggio dominato dal cosplay come forma di relazione col tempo, le feste medievali costituiscono il punto di fusione tra folklore, turismo esperienziale e consumo simbolico. Sono eventi in cui la nostalgia è accuratamente amministrata, curata, coreografata. Non si tratta di evocare realmente il Medioevo, con le sue gerarchie brutali, le sue epidemie, le sue punizioni pubbliche o la sua fame strutturale, ma di riprodurne un simulacro rassicurante, giocoso, digeribile. Un Medioevo “disneyfied”, dove il sangue è sostituito dal vino speziato e i ceppi diventano photo opportunity. Ma questo dispositivo, come già anticipato si estende ben oltre le piazze e i manieri in affitto: arriva fino al cuore stesso del Novecento, là dove i ruoli di genere, lavoro e famiglia sono stati costruiti come caratteri ideali, veri e propri costumi mitologici.
Continuiamo a recitare parti come il libraio, l’artigiano, l’insegnante, il padre, non perché siano necessarie, ma per sostenere l’illusione della normalità in un mondo che ne ha già cancellato la funzione.
Il cosplay diventa così l’ultima fase dell’espropriazione: non solo si cancella un mondo, ma lo si riusa come contenuto per l’intrattenimento. Con l’accelerazione tecnologica, questo meccanismo si amplifica: il tempo si liquefa e ogni epoca diventa costume disponibile. È l’effetto Disneyland applicato alla storia: si può essere vichingo, samurai o elfo con la stessa facilità con cui si scrolla un feed. Il presente diventa un palcoscenico di maschere storiche. In assenza di un orizzonte collettivo, moda e cultura mediatica si rincorrono nei loop temporali, e ciò che sembrava definitivamente tramontato torna in scena in forma di revival: il ritorno della moda Y2K (Year 2 Kilo, anno 2000), l’estetica VHS, il giornalismo d’opinione in forma di opinionismo da talk show, le divise della scuola anni Novanta nei drammi adolescenziali, le clip di repertorio nelle campagne sociali. I ruoli del Novecento vengono rispolverati e reincarnati, prima come memi, poi come identità: si gioca a fare il “padre di famiglia”, il “prof”, l’“intellettuale”, ma sono ruoli in disarmo, svuotati, imitati nel vuoto, si tratta di ormai di personaggi interpretati da performer.
Più che sapere, Edoardo Prati “sembra sapere”. Il suo è un cosplay dell’intelligenza. In lui si incarna la parabola dell’intellettuale pubblico nell’epoca della piattaformizzazione. Non contesta il mezzo: è il mezzo. Un cosplay levigato dell’intellettuale organico, ma privo di corpo politico.
In questo, Prati si innesta in una linea di transito simbolico che da Gianni Vattimo ‒ il “professore filosofo” presentatore RAI ‒ e Maurizio Ferraris, anche lui in prima linea per il servizio pubblico, conduce a Vittorio Sgarbi e Massimo Cacciari, portatori televisivi di una versione caricaturale e affettata dell’intelligenza. Con la differenza che, mentre Sgarbi esibiva in forma caricaturale un’intelligenza carnevalesca, distruttiva, che richiamava quasi a Carmelo Bene nella sua teatralità situazionista, Prati non recita più nemmeno un conflitto: è un vestito parlante.
Se Sgarbi era la mutazione berlusconiana e godereccia dell’intellettuale impolitico, Prati è l’intellettuale cosplay: indossa il ruolo come una pelle di leopardo, simulando una possessione culturale, ma senza alcun legame con la comunità o con un progetto trasformativo. Parla per sé stesso ma finge di essere un megafono di una cultura che non esiste più. Come gli Anyoto del prologo, anche lui si traveste: ma non per incarnare il potere sacro del felino, quanto per fingere di abitare ancora un tempo in cui “sapere” e “dominio” potevano essere immaginati in opposizione. Il suo arsenale ‒ citazioni eleganti, dizione impeccabile, riferimenti colti ‒ è come la collezione di artigli rituali degli Anyoto conservata nel museo di Storia naturale di Parma: reliquie musealizzate, svuotate del loro uso, ormai pure scenografie di una possessione estetica.
Ma Prati non è che la punta dell’iceberg. La sua è solo la forma più innocua ‒ quasi tenera ‒ del cosplaying dell’autorità. Il vero cuore oscuro di questa metamorfosi è altrove: nella maschera del Dittatore, che si mette in posa come un villain da shōnen manga; nell’incel terrorista che cita Pain mentre compie una strage; nei capi di Stato che emulano l’iconografia da imperatori tardorepubblicani tra TikTok e colonne doriche in PVC; nelle organizzazioni criminali che imitano lo Stato, parodiandone i codici, le insegne, le liturgie amministrative. Queste impersonificazioni terminali non sono più solo spettacolo: sono strategie di potere reale, costruite sull’imitazione dei simboli svuotati che un tempo rappresentavano l’ordine. E più questi ruoli sono privi di fondamento, più devono essere esibiti come costumi, con una teatralità forzata e bulimica che non rassicura, ma inquieta. Così, mentre il capitalismo entra nella sua fase di esaurimento semiotico, e non produce più ruoli nuovi ma solo revival di quelli vecchi, l’intera società si affida al guardaroba per sopravvivere al vuoto. Il futuro è stato ritirato dal mercato. Al suo posto, ci restano solo le maschere ‒ e chi ha il potere di indossarle più credibilmente.