

“I l giorno in cui mia figlia nacque morta, dopo aver stretto il futuro rosa dalle labbra di bocciolo tra le mie braccia tremanti, tenera inanimata, e aver ricoperto di baci e lacrime il suo volto, dopo che ebbero passato la mia defunta bambina a mia sorella che la baciò, poi al mio primo marito che la baciò, poi a mia madre che non sopportò di tenerla, dopo che l’ebbero portata fuori dalla mia stanza d’ospedale, minuscola cosetta inanimata in fasce, l’infermiera mi diede dei tranquillanti e una saponetta e una spugna.”
La prima pagina di The Chronology of Water (La cronologia dell’acqua, 2022) di Lidia Yuknavitch riporta la storia di un trauma ingombrante e doloroso, dove il linguaggio – il movimento della sintassi spezzato e incerto, come se stesse scrivendo proprio dopo aver “partorito” – si fa portavoce di una ferita ancora aperta e pulsante. Questa scena è uno dei primi movimenti dell’omonimo film, nonché esordio alla regia, di Kristen Stewart, presentato nella sezione Un certain regard dell’ultimo Festival di Cannes, dove l’autrice decide di riprodurre pedissequamente la frammentazione del racconto di Yuknavitch, per l’appunto fatto di istantanee. Il corpo della protagonista, Lidia, e il modo in cui gradualmente cambia forma, si ridefinisce, si sfibra, rinasce, muore, per poi risorgere nuovamente, è il centro nevralgico di queste istantanee, sia visive che letterarie.
Il primo sintagma del paragrafo (“Il giorno in cui mia figlia nacque morta”) consente al lettore di entrare immediatamente nell’ecosistema narrativo del romanzo, individuando, inoltre, il taglio che l’autrice avrebbe dato a tutto il resto del racconto. Il primo sintagma dello stesso paragrafo, Stewart lo traduce inquadrando il sangue sgorgante nella doccia e nella vasca da bagno; il corpo di Lidia piegato in due, la voce strozzata dal pianto mentre chiede scusa, a sé stessa, al suo bambino, a sua sorella che l’abbraccia.
The Chronology of Water di Kristen Stewart è un film che lavora apertamente sulla struttura della perdita come dispositivo narrativo. Rispettando l’ambizione del memoir di Yuknavitch il film si costruisce come un flusso, un continuum in cui tempo e spazio si disfano, come in un incubo o in un corpo che non riesce più a contenere la propria storia. E quindi esplode: Stewart e Yuknavitch fanno vibrare sulla pagina e sullo schermo i significati di un dolore che lacera, che si ripete, che torna indietro, che non si chiude. Quest’edizione del Festival di Cannes riunisce alcuni film attorno a un medesimo nodo esistenziale: quello del dolore, della perdita, dell’identità che si smargina di fronte a un trauma, e che, nonostante questo, non trova lo spazio per rinascere. Il cinema si fa riflesso oscuro (e volutamente irrisolto) di un’umanità in cerca di redenzione, e lo fa attraverso autrici e autori che lavorano sul margine, sul limite. I tre film che più hanno dato forma a questa sensazione ‒ Her Will Be Done di Julia Kowalski, Alpha di Julia Ducournau e The Chronology of Water di Kristen Stewart – si muovono su codici estetici e coordinate linguistiche molto diverse, agli antipodi; tuttavia, sembrano comunicare sotterraneamente, insieme, un’idea di cinema non come messaggio ma come ferita aperta, qualcosa che l’immagine stessa non riesce – né vuole, probabilmente – rimarginare.
The Chronology of Water di Kristen Stewart lavora apertamente sulla struttura della perdita come dispositivo narrativo: il film si costruisce come un flusso, un continuum in cui tempo e spazio si disfano, come in un incubo o in un corpo che non riesce più a contenere la propria storia.
Quella dei corpi malati di AIDS che Julia Ducournau metaforizza con le carni che – letteralmente – si pietrificano e rischiano di frantumarsi al minimo tocco. Memore dell’ultimo Cronenberg nell’idea del corpo non più come materia pulsante e viva ma diradata, Alpha immagina che l’epidemia di AIDS trasformi le persone in statue di marmo. Il film non è solo un’allegoria fortissima della violenza istituzionale, medica, sociale cui sono stati sottoposti quei corpi e quelle identità tra gli anni Ottanta e Novanta; per quanto respingente da un punto di vista narrativo, insolito rispetto a ciò cui Ducournau aveva abituato gli spettatori, Alpha racconta il corpo malato come spazio in cui desiderio, paura, morte e memoria collidono.
L’immagine non si limita a colpire lo sguardo, ma richiede uno sforzo di attenzione che va oltre l’immediatezza visiva. Invita a soffermarsi, a riflettere, a collocarla in un contesto più ampio, che è insieme culturale, sociale e politico. In questa prospettiva, l’opera assume i contorni di una presa di posizione: una consapevolezza che non si esprime in modo esplicito, ma che si rende evidente a chi è disposto a leggerla. Lo slogan adottato da diversi movimenti LGBTIQA+, “siamo tutt* sierocoinvolt*”, riassume questa posizione. Non si tratta soltanto di uno slogan, ma di un invito ad assumersi una responsabilità collettiva nella lotta contro l’epidemia da HIV e contro lo stigma che ancora colpisce le persone sieropositive. L’immagine, attraverso il linguaggio simbolico dei corpi scolpiti, fissa questa consapevolezza nella materia. Il marmo, con la sua solidità e permanenza, diventa così il veicolo attraverso cui il messaggio si sedimenta, non come un’istanza transitoria ma come una condizione permanente che interroga lo spettatore.
Alpha immagina che l’epidemia di AIDS trasformi le persone in statue di marmo: non solo un’allegoria della violenza istituzionale, medica, sociale cui sono stati sottoposti quei corpi e quelle identità tra gli anni Ottanta e Novanta, ma un racconto del corpo malato come spazio in cui desiderio, paura, morte e memoria collidono.
Il film comincia con un fuoco e una maledizione che deve essere estirpata da un corpo femminile, i cui lineamenti a stento si scorgono. Ancora una volta la natura come “sigillo” e il fuoco come elemento catartico entro cui insinuarsi per purificarsi da una malattia, un’infezione (come in Ducournau): una genealogia del male che perdura da secoli nelle donne della famiglia di cui Her Will Be Done ci parla. Le fiamme dell’inizio avvolgono il corpo e le urla della madre che non gli sopravvive; prima la madre, quindi, prima ancora, probabilmente, la madre di sua madre e ora sua figlia, che inevitabilmente eredita quel demone che il più delle volte deflagra senza preavviso contorcendole la voce e tutte le membra. Nella fattoria dove lavora con la famiglia, Nawojka è circondata e “protetta” dal padre – cosciente del destino che attende la figlia ‒ uomo burbero e severo, e da due fratelli, entrambi sgradevoli. Il maggiore dei due è prossimo al matrimonio, una cerimonia che riunirà gran parte degli abitanti di questa piccola comunità rurale francese. Ma Nawojka e la sua famiglia restano degli outsider: immigrati polacchi, lentamente ma inesorabilmente integrati nella comunità locale.
In un paesaggio psicologico già carico di tensione fa il suo ingresso Sandra, un’ex abitante del villaggio tornata dopo una lunga assenza per vendere la casa dei genitori, recentemente scomparsi. Sandra attraversa questo mondo grigio con una presenza fisica ed estetica che non passa inosservata e in lei concentra una forma di energia che risveglia qualcosa in Nawojka: non solo un desiderio sessuale sentito da un’adolescente che sta diventando qualcos’altro, ma anche un senso di forza, e un rifiuto categorico di piegarsi all’ignoranza e alla meschinità che permeano la comunità locale.
Her Will Be Done comincia con un fuoco e una maledizione che deve essere estirpata da un corpo femminile, i cui lineamenti a stento si scorgono. Ancora una volta la natura come “sigillo” e il fuoco come elemento catartico entro cui insinuarsi per purificarsi da una malattia, un’infezione.
Il ritmo del racconto è lento e misurato: momenti di contemplazione immersi nel vuoto rurale si alternano a immagini crude, viscerali, che spezzano la quiete con violenza improvvisa, come la magnifica e silenziosa sequenza del cannibalismo o quella in cui Nawojka si dà fuoco per eliminare tutti i suoi peccati. I flashback appaiono come brevi lampi ‒ come i frammenti dei traumi passati di Lidia in The Chronology of Water ‒ lasciando allo spettatore il compito di ricostruire il destino di Nawojka, come si farebbe con un racconto popolare, intrecciando indizi, simboli e intuizioni.
Il corpo, quindi, diventa la simbolizzazione che permette all’io di emergere. Nel saggio La coupable (in La jeune née, con Hélène Cixous, 1975) ‒ ricorda Lidia Curti ‒, la filosofa e critica letteraria francese Catherine Clément parla della strega, della straniera e dell’isterica, come di colei che incarna una sintesi impossibile, occupando lo spazio dell’insolito, di ciò che sta fuori dalla norma, gli interstizi, per l’appunto, di un ordine codificato (La voce dell’altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale, 2018). Clément avrebbe guardato proprio alla figura della tarantolata nel Mezzogiorno italiano, e considerato la sua “tarantella”, dovuta al morso immaginario della tarantola ‒ e quindi il ballo, la danza dionisiaca ‒ come la risposta del soggetto femminile alle gerarchie patriarcali. Una danza demoniaca di follia, quella che muove Nawojka e Sandra: se la tarantolata si muove per rompere gli incantesimi da cui è circondata, il demone della giovane va a colpire, con i suoi movimenti spasmodici e bruschi, la presunta immobilità e fissità in cui l’avevano cristallizzata suo padre e i suoi fratelli. La donna-isterica, la figura che fuoriesce dai canoni, che non s’identifica col padre né con altre sue ramificazioni, che non risponde al richiamo del padre o del fratello, mette in questione l’altro così come sé stessa, spostando e cambiando le cose, non trovando una collocazione.
Al centro del film c’è una riflessione sul prezzo da pagare per affermare sé stessi in opposizione alle aspettative imposte da una società patriarcale, sul confine incerto tra fede e paura, e sul potere che una comunità attribuisce alle proprie leggende.
Per concludere, abbiamo parlato di tre opere che condividono la medesima urgenza: mettere in scena il corpo come luogo di conflitto, di trasformazione, di memoria. Se in Alpha la malattia si pietrifica nella carne, metafora di un’epidemia e dello stigma sociale che ne deriva, e se in The Chronology of Water il dolore trova nella scrittura e nell’acqua una possibilità di re-immaginazione simbolica, in Her Will Be Done è il fuoco a definire il tramite, la soglia da oltrepassare per poter esistere fuori dai confini imposti. Abitare il dolore per ascoltarlo e poi trasformarlo; nessuno di questi film propone una via di uscita: al contrario, le tre autrici scelgono di abitare la ferita, di fermarsi nel trauma, rendendolo forma di un’identità che non si ricostruisce, ma si espone nei suoi tagli, nelle cicatrici, nel corpo martoriato dal fuoco, e si espande, si riscrive.