

Q uesta storia può cominciare da un villaggio contadino della campagna haitiana. È un villaggio sulle colline: alcuni cimarroni, ex schiavi di origine africana, si sono rifugiati lì per sfuggire alle piantagioni schiaviste delle pianure. Hanno tagliato qualche albero per costruire il villaggio, e altri per l’agricoltura e la legna. Sono terreni poveri, quelli che si trovano a coltivare, perché quelli ricchi sono coperti dalle piantagioni dei coloni. E siccome i terreni rendono poco, tagliano altri alberi per farci carbone vegetale da vendere in città. Allora i cimarroni vengono additati come responsabili della deforestazione dagli ambientalisti. Possiamo immaginare che, per preservare la biodiversità dell’isola, si deciderà di impedire il disboscamento di quelle colline: si farà una riserva, da cui escludere del tutto quei cimarroni che tagliavano gli alberi. A nessuno verrà in mente di accusare i coloni con le loro piantagioni, che fin dal loro arrivo si erano occupati di deforestare tutto il resto dell’isola. Nemmeno agli ambientalisti. Perché la nostra cultura, ci dice questa storia, è talmente intrisa di colonialismo che spesso non lo vediamo e anzi lo perpetriamo senza accorgercene anche nelle lotte, anche nell’attivismo. L’ecologia stessa ne è costellata: sul colonialismo si fonda spesso il concetto di riserva naturale così come l’estrazione di metalli e terre rare in America Latina e in Africa. Liberarsene è parte del processo necessario per affrontare la crisi climatica.
E in effetti questa storia potrebbe cominciare anche molto prima, fra il Quindicesimo e il Diciannovesimo secolo, quando dodici milioni e mezzo di africani furono strappati dalle loro terre e stipati nella stiva di navi dirette nelle Americhe. Come scrive Malcom Ferdinand, ingegnere ambientale di origini caraibiche, in Un’ecologia decoloniale (2024):
questi spazi della stiva e dell’interponte rappresentano anche un dispositivo politico fondante del mondo moderno. Per diversi secoli, relazionarsi con un altro essere umano, o più precisamente trattarlo, mettendolo dentro una stiva fu considerato ammissibile e opportuno. […] La collocazione nella stiva è il gesto che inaugura la relazione schiavista con questi uomini, queste donne e questi bambini neri. Tale relazione non si ferma allo sbarco, all’uscita fisica dalla stiva delle navi negriere, benché assuma forme diverse. I prigionieri della nave negriera e gli schiavi della piantagione si ritrovano legati nella stessa stiva del mondo.Ma come coglie lo stesso Ferdinand, questa storia comincia ancora prima, nelle storie che popolano il nostro immaginario e che ci forniscono le lenti attraverso cui leggiamo il mondo. L’arca di Noè, immagine fondante della cultura occidentale, è una nave su cui un Padre sceglie chi far salire e chi no. Assomiglia alla Tesla costosissima di Elon Musk, la salvezza per pochi di una mobilità elettrica di lusso per una transizione d’élite. Ma l’immagine più simbolicamente potente è quella della navicella spaziale diretta su Marte, letteralmente un’arca di Noè: qualcuno, forse un anziano Musk, sceglierà chi far salire sul ponte e chi nella stiva, mentre a tutti gli altri rimane soltanto la tempesta.
La nostra cultura è talmente intrisa di colonialismo che spesso non lo vediamo, perpetrandolo senza accorgercene, persino nelle lotte e nell’attivismo.Queste sono le storie di una delle fratture profonde che isolano l’ecologismo occidentale. Per la geografa Kathryn Yusoff della Queen Mary University of London l’Antropocene è bianco. Bianco come chi non si schiera, e bianco prima di tutto perché bianco e più o meno inconsapevolmente colonialista è il pensiero di cui si nutre. Nel termine Antropocene c’è l’idea che la specie umana tutta abbia inciso direttamente sui processi geologici della Terra e sia colpevole dell’immensa e sfaccettata crisi climatica in cui ci troviamo: come se tutti avessero contribuito allo stesso modo e addirittura come se fosse necessario che l’umano, in quanto specie, finisse per rompere del tutto e a livello globale quell’“interscambio complesso e dinamico tra gli esseri umani e la natura” che Marx chiama “metabolismo”. In realtà solo un piccolo pezzo di umanità ha prodotto questa rottura, in particolare l’uomo bianco nella società occidentale capitalista e coloniale.
Moltissime proposte sono arrivate nello scorso decennio per sostituire la parola Antropocene. Andreas Malm e Jason Moore hanno parlato di “Capitalocene”, mettendo l’accento appunto sul sistema economico. Marco Armiero ha parlato di “Wasteocene”, l’era degli scarti, intendendo non solo i rifiuti ma anche le terre e le comunità umane e non umane sacrificate sull’altare del profitto. Donna Haraway ha parlato invece di “Plantationocene”, per focalizzarsi sui danni causati dalle monoculture nei Paesi del Sud globale.
Nella piantagione come nello scarto c’è quello che il colono e l’ambientalista non vogliono vedere. Entrambi, come scrive Malcom Ferdinand, cercano uno stesso paradiso da cui l’Altro è escluso. L’Altro è tutto ciò che sta fuori, nella stiva del mondo, tutto ciò che Ferdinand chiama “il negro”: persino la Terra, in questo senso, è “negra”. E Negrocene è quell’era storica che ha relegato “nella stiva del mondo esseri umani e non umani”; “negri” per Ferdinand sono tutti i gruppi umani considerati inferiori, usati come forza lavoro e allo stesso tempo nascosti, nella stiva come ai margini della proprietà padronale perché il bianco possa vivere da solo, nascondendo alla propria vista qualsiasi tipo di “Altro” e rifiutandosi insomma di condividere la terra con altri viventi.
Ciò che resta fuori è tutto ciò che sfruttiamo ma non vogliamo vedere. Sono i rifiuti e le risorse. Fra le risorse ci sono gli schiavi, ma anche le altre specie, e anche le donne. Sono queste le tre categorie che per Marx, attraverso il loro lavoro non pagato, permettono al capitalismo di esistere: il lavoro di cura per le donne, il lavoro nei campi degli schiavi, ma anche il lavoro di un mulo, di un cane da pastore, di un pollo. Accanto al mancato riconoscimento del loro lavoro, queste categorie sono anche estromesse da ogni potere decisionale sulla propria vita e sul suolo che abitano: non lavorando, non sono coinvolti in nessuna scelta.
Nel termine Antropocene si annida l’idea che la specie umana tutta sia colpevole dell’immensa e sfaccettata crisi climatica in cui ci troviamo: come se tutti avessero contribuito allo stesso modo e la specie umana fosse inevitabilmente distruttiva.La crisi climatica affonda le proprie radici in un modello economico e in una cultura dello scarto, della stiva e della piantagione, che emergono da un sistema di potere patriarcale: senza Noè non esisterebbe un’arca. Noè è il punto di vista unico e oggettivante dell’uomo bianco, che sceglie chi sale e chi non sale sulla nave. Un ambientalismo che non tenga conto di tutto ciò è un ambientalismo sterile e vuoto. Ferdinand trova un’immagine bellissima per descrivere questo tipo di ecologia: è l’immagine di una “Terra senza Mondo”, spopolata dei suoi abitanti, delle credenze, usanze e significati. Vergine e pura come una vestale. Dunque morta, o finta, come un simulacro. In questo senso le Americhe conquistate e la riserva naturale hanno molto in comune. L’uomo bianco non accetta di convivere con il nativo. Lo stermina o lo sposta lontano dal suo sguardo: uno scarto. Allo stesso modo dalla riserva naturale sono estromessi gli umani della stiva, è un paradiso a cui ha accesso il turista e che solo un potere dall’alto può gestire.
Questo, del resto, hanno in comune l’estrattivismo e il patriarcato: la presunzione di avere a disposizione un oggetto da sfruttare o da ammirare, si tratti di una donna o della Terra stessa. E infatti Ferdinand osserva: “I coloni occidentali e gli ambientalisti si trovano accomunati nella loro ricerca di un paradiso sulla Terra che nasconde l’esistenza dell’altro”. Il ripristino della natura perché torni “incontaminata”, la riserva che esclude gli abitanti per creare una foresta senza mondo, fa parte di questo immaginario.
La crisi climatica affonda le proprie radici in un modello economico, e in una cultura dello scarto, della stiva e della piantagione, che emergono da un sistema di potere patriarcale.
Nel 2022 Greta Thunberg non ha fatto un passo indietro, come suggeriscono alcuni, ma si è spostata di lato per lasciar posto al suo fianco ad altre attiviste, in particolare l’ugandese Vanessa Nakate. E dallo scorso anno quasi tutti i movimenti ecologisti hanno integrato la causa palestinese nella loro lotta. In Italia, i movimenti si sono uniti alla lotta operaia della ex GKN di Campi Bisenzio, mentre in Francia il 2023 ha visto decine di migliaia di persone che invece di scendere in piazza sono scese nei campi assieme agli agricoltori del movimento Soulevement de la Terre. Non è abbastanza, ma è qualcosa ed è importante che ci sia.
L’ambientalismo occidentale è spesso stato bianco, sordo, colonialista e lontano dai lavoratori.
Per autori come Yussof e Ferdinand è fondamentale che l’ambientalismo sia consapevole, non solo di come l’inquinamento e il degrado ambientale rafforzino il dominio sui poveri e i razzializzati, ma anche di come alcune delle soluzioni perpetrino lo stesso modello fondato sulle disuguaglianze e sul lavoro non pagato (o quasi) degli abitanti delle stive ‒ che siano il Sud globale o qualsiasi territorio di scarto ‒, sull’estrazione cieca di risorse e sull’accaparramento di terre altrui. Non sono fratture diverse, quella coloniale e quella ecologica, sono la stessa frattura. Dove per frattura, Ferdinand intende la discontinuità nelle relazioni fra gli esseri umani e l’ambiente, fra culture e fra diverse forme di conoscenza che è insita nell’ordine sociale generato dal capitalismo. Politiche “verdi” incapaci di disfarsi dell’abitudine coloniale al dominio non solo ripropongono le stesse logiche di potere da cui proprio la crisi climatica, suonando un allarme sempre più chiaro, ci sta dando la possibilità di liberarci: sono anche inefficaci e ancora una volta ci isolano, sul ponte della nave, prigionieri della terra senza mondo che continuiamo a costruire.
Non sono fratture diverse, quella coloniale e quella ecologica, sono la stessa frattura, intesa come la discontinuità nelle relazioni fra gli esseri umani e l’ambiente, fra culture e diverse forme di conoscenza, insita nell’ordine sociale generato dal capitalismo.
La crisi climatica mette a nudo la vulnerabilità dell’immaginario occidentale, e proprio per questo l’ecologismo per primo ha bisogno di destrutturarsi e contaminarsi mettendo le mani, innanzitutto, nella produzione di conoscenze. In un articolo uscito su The Conversation e intitolato Five shifts to decolonise ecological science – or any field of knowledge, J. Auerbach Jahajeeah, C. Trisos e M. Katti osservano come l’epistemologia e il pensiero dell’ecologia poggino i piedi su un passato coloniale che comprende anche il nome che diamo alle cose: piante e animali sono stati rinominati dall’uomo bianco al suo arrivo e non sappiamo nulla dei nomi con cui erano chiamati prima. Allo stesso modo le mappe sono state disegnate in modo da conferire centralità all’Europa e al Nord America, attraverso regole di astrazione del pensiero occidentale.
Gli autori propongono appunto cinque passaggi necessari per decolonizzare il pensiero e l’epistemologia ambientali, fra cui decolonizzare le menti, ossia aprirsi a forme di conoscenza che non provengano necessariamente da pratiche scientifiche occidentali; comprendere le storie, per una conoscenza che sia sempre situata in un contesto; migliorare l’accesso alla conoscenza per ricercatori o attivisti provenienti da zone del mondo da cui è più difficile partecipare al dibattito accademico; e riconoscere le competenze al di là degli stretti parametri occidentali.
La storia dell’ecologia politica e decoloniale, è anche una storia di uscita dalla solitudine che separa l’uomo bianco occidentale dagli altri esseri umani, dalle altre specie, dalla Terra tutta.