

A mmettiamo di voler scoprire cosa c’è dentro una cosa: prima però dobbiamo aprirla. Aprire qualcosa senza romperla è già un problema non da poco, immediatamente torna a pesarci sulla coscienza l’antico monito di genitori preoccupati dall’incuria con cui i bambini sfasciano qualsiasi confezione di un oggetto nuovo. Ci sono invece spesso e volentieri delle linee privilegiate da percorrere, linee attraverso cui le cose si lasciano aprire, linee tratteggiate, giunture mobili. Sembrano rassicurarci, ma per aprire serve un taglio, come si faceva una volta con la carta dei libri. E, una volta aperta, la cosa non potrà che presentarsi come divisa. Alcune confezioni tentano di rimediare a quest’effrazione con meccanismi semiadesivi apri/chiudi, ma sono solo tentativi posticci. Dunque apriamo. Cosa c’è dentro? Ora che è di fronte a me non posso non notare quell’insopportabile giuntura che tiene insieme i due lati in cui – ora che è aperta – si è divisa, e che la divide in almeno due sezioni, due lati, destra/sinistra, sopra/sotto, alto/basso. Come scegliere? Principio di nevrosi: dubbio. Ma cosa c’è dentro? Non riesco a capire, devo avvicinarmi, è una trama fittissima, devo avvicinarmi ancora di più per discernere le singole parti. Ci sono finito dentro, mi ingloba, non riesco più a scorgerne i bordi. Dove inizio? Dove finisce? Dove inizia? Dove finisco?
Il titolo è Murmur. Without Breaks (2015) ed è la prima opera che incontriamo entrando nell’Accademia dei Lincei per visitare la mostra Mondi possibili di Gianfranco Baruchello curata da Carla Subrizi presso Villa Farnesina a Roma. Si tratta della sagoma bianca di una testa semiaperta, simile a quella di un manichino bidimensionale ma affettata in due come faremmo con un limone, e che si potrebbe chiudere a pacchetto su sé stessa grazie alla giuntura metallica che unisce i due lati. L’interno è parzialmente segnato dalla minuta grafia che contraddistingue il tratto di Baruchello. Murmur esemplifica bene ciò che troviamo al fondo dell’atteggiamento artistico di Baruchello: tentare di produrre un’opera, e quindi un segno, una rappresentazione, che includa in sé stessa il processo del suo farsi. Un’opera che si possa tenere in bilico sul suo stesso margine facendosi supporto dell’impossibilità di determinare i confini esatti di qualcosa che possa valere da supporto stabile.
Murmur esemplifica bene ciò che troviamo al fondo dell’atteggiamento artistico di Baruchello: tentare di produrre un’opera, e quindi un segno, una rappresentazione, che includa in sé stessa il processo del suo farsi.
L’architettura, intesa nel senso più ampio possibile, è proprio l’arte di in-ter-ca-la-re intervalli nel continuum del territorio per costruire frame di probabilità. Confini, muri, finestre, piani, hanno l’obiettivo di levigare le asperità e di rendere l’esterno disponibile a partire da un’interfaccia tramite cui osservarlo, quantificarlo, dominarlo, familiarizzarlo. Lo ha reso bene Georges Perec quando ha scritto che “lo spazio è ciò che arresta lo sguardo, ciò su cui inciampa la vista: l’ostacolo: dei mattoni: un angolo, un punto di fuga: lo spazio, è quando c’è un angolo, quando c’è un arresto, quando bisogna girare perché si ricominci. Non ha nulla di ectoplasmatico, lo spazio; ha dei bordi, lo spazio, non corre in tutti i sensi: fa di tutto affinché le rotaie delle ferrovie si incontrino ben prima dell’infinito”.
I segni e le opere di Baruchello si muovono, transitano, attraverso la significazione senza mai cristallizzarsi in una forma specifica. Sono segni asignificanti che si sforzano di rimanere parzialmente in contatto aderente con il divenire da cui emergono.
Un’interfaccia sospesa è anche la Casa in fil di ferro (1975) collocata nella sala del fregio. Si tratta letteralmente dello scheletro di una casa realizzato in fil di ferro che nella sua paradossalità ci mostra il processo laborioso attraverso cui tentiamo con le nostre abitazioni di piegare e striare l’esterno codificando delle pratiche. Il fil di ferro è metafora di quel contorno minimo che stacca interno ed esterno uno dall’altro, è il gesto minimo di informazione dell’informe affinché qualcosa possa solidificarsi e sostenersi mantenendo una propria forma specifica. In questo solido possiamo per di più entrare, e da dentro incontrare l’esterno a partire da questa struttura insieme materiale e trascendentale. Ma è una struttura esile, leggera, costruita e che quindi si presenta anche come smontabile, rivedibile, nomade.
Il neutro sembra essere l’unico genere adatto ai gesti di Baruchello, ma non è un neutro da intendere in modo fiacco. In questo seguiamo Barthes: il neutro è ciò che elude il paradigma, laddove il paradigma è inteso come la molla che fa scattare il senso sulla base di un conflitto e quindi “scegliere l’uno e respingere l’altro, è sempre sacrificare al senso, produrre senso, darlo da consumare”. Eludere il paradigma è allora “un’attività ardente, scottante”. Ma come farlo? La strategia di Baruchello si avvicina a mettere il paradigma in uno stato di variazione continua, a coglierlo nel suo continuo, laborioso, artigianale farsi e disfarsi. La polarizzazione arriva a stento a isolarsi a favore del passaggio, della transizione di fase, della trasduzione.
Questo neutro sembra in tensione con le pareti di Villa Farnesina affrescate all’inizio del Cinquecento, tra gli altri, da Raffaello su commissione di Agostino Chigi. Ma c’è una figura che torna spesso negli intermezzi tra una scena affrescata e l’altra, nelle zone in cui la pittura incornicia le scene vere e proprie creando illusori intermezzi architettonici. È la figura della grisaille, ovvero di una scena dipinta sotto forma di scultura, e quindi dipinta in scala di grigi. È chiaramente un altro circuito paradossale: la pittura, che avrebbe tutti i colori a disposizione, si trova a dipingere qualcosa limitando la sua tavolozza soltanto al grigio per far apparire quella scena come se fosse non una pittura ma una scultura, quindi fatta per esempio di marmo o gesso.
Se le grisaille rinascimentali entrano inaspettatamente in eco con l’arte di Baruchello è perché, come ha scorto giustamente Andrea Pinotti, esse pongono direttamente “la questione della possibilità della raffigurazione del simbolo neutro”.
Se le grisaille rinascimentali entrano inaspettatamente in eco con l’arte di Baruchello è perché, come ha scorto giustamente Andrea Pinotti, esse pongono direttamente “la questione della possibilità della raffigurazione del simbolo neutro”. Pensiamo al neutro come alla condizione di possibilità di ogni raffigurazione: come lo si può esibire allora nella sua trascendentalità senza fin dall’inizio declinarlo e determinarlo? Evidentemente la grisaille appare “del tutto problematicamente, come il simbolo del simbolico stesso”. Siamo sullo stesso terreno instabile di Baruchello, che cerca continuamente di afferrare il movimento attraverso cui il segnare, l’operare, il rappresentare, si fa quel segno determinato, quel supporto, quel quadro. Il problema è che ci ritroviamo sempre tra le mani l’impronta che ha preso il posto dell’impressione e ci vuole una grande abilità per produrre “segni mobili” che siano allo stesso tempo “segni aderenti”, segni che lavorino il bordo tra aderenza e mobilità sfumandolo, balbettandolo il più possibile: segni-particelle. Si tratta, come scrive il filosofo Federico Leoni nel suo testo su Bergson, di guardare il segno al rovescio per scorgere “il lato per il quale il segno innesca il suo lavoro semiotico, il lato per il quale il segno è un segno incipiente ma non dispiegato, una semiosi che inizia a camminare ma ancora barcollando. Questo lato che ci interessa è precisissimo ma vacuo, assolutamente incisivo ma grigio”.
È un ribaltamento dello sguardo abituale. Arrivati a questo punto potremmo chiederci: che mondo è possibile per chi vede le cose in questo modo? Proviamo allora a concludere rispondendo con la descrizione di Ottavia, la quinta delle città sottili di Italo Calvino:
Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città-ragnatela. C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s’intravede più in basso il fondo del burrone.
Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno. Tutto il resto, invece d’elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, orti d’acqua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.
Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge.