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	isulta essere impressionante la varietà di interessi che Furio Jesi – saggista, critico letterario,  studioso di mitologia e di religioni, filosofo, traduttore – ci ha lasciato nella sua breve esistenza (1941-1980), conclusasi a soli trentanove anni. Dando inizio al suo percorso di ricerca in  giovane età, appena quindicenne, come studioso di egittologia e archeologia, presto sposterà il  suo focus di studi sulla scienza del mito e delle religioni, interessandosi principalmente delle  trasformazioni, reversioni e risemantizzazioni dei mitologemi lungo la storia della cultura, fino  alle sue escrescenze ultime nella contemporaneità.
Influenzato inizialmente tanto dall’etnologo conservatore Leo Frobenius, studioso della civiltà  africana, che dal linguista marxista Vladimir Propp e da Carl Gustav Jung – considerando  questi autori come “modelli interagenti” da adoperare alchemicamente nella loro interazione  per delineare la complessa problematica dello statuto del mito e delle mitologie – si dirigerà  successivamente verso la speculazione di Karoly Kerényi, uno dei maggiori studiosi di scienza  della mitologia del suo tempo, considerato come il suo vero maestro. Dal confronto-scontro  con quest’ultimo, e dalla contemporanea fascinazione per Walter Benjamin, Jesi formulerà il  suo dispositivo gnoseologico per eccellenza nel rapportarsi correttamente al mito e alla  mitologia, il modello macchina mitologica. 
Dal momento che le mitologie sono delle narrazioni che donano senso al mondo comune e ne  legittimano l’agire al suo interno, dei racconti la cui peculiare performatività sta nel loro  rimandare ad un carattere extra-storico di fondazione di comunità umane, il suo pensiero  rimane ad oggi della più grande attualità. Figlio della temperie culturale di fine anni Cinquanta, in cui  l’intellighenzia europea inizia ad analizzare i grandi apparati mitologici del fascismo e del  nazionalsocialismo, e a chiedersi come sia stato possibile che delle semplici narrazioni abbiano  fatto presa su milioni di persone, conducendole a guerre e stermini, la riflessione di Jesi  rappresenta tuttora uno strumento fondamentale nella critica ad ogni mitologema conservatore,  nell’analisi di ogni processo di sacralizzazione tramite narrazioni, nonché una potente  autocritica di tutto ciò che all’interno della sinistra continua a parlare un linguaggio e una logica  mitica: il ricorso al mito nel linguaggio della propaganda politica è un elemento costante, ed  è sempre – per la sua stessa natura – un elemento ’reazionario’. Anche la dottrina politica più  progressista si serve di uno strumento intrinsecamente reazionario quando fa ricorso al mito,  pur tecnicizzandolo, perché il mito è pur sempre ’passato’: passato il quale esercita sugli uomini  un certo potere che, appunto, viene sfruttato dalla propaganda.
 
E testimonianza dell’attualità del suo pensiero è la riedizione del fondamentale volume Mito, apparso per la prima volta nel 1973 per Isedi e ora ristampato per l’editore Quodlibet e curato  da Andrea Cavalletti. Ennesima uscita editoriale che va a sottolineare la riscoperta della figura  e del pensiero dell’intellettuale torinese. Negli ultimi anni, infatti, sono stati ripubblicati suoi importanti studi, quali Cultura di destra e Germania segreta, raccolti testi e pubblicati inediti,  quali Il tempo della festa e Spartakus, Simbologia della rivolta, e usciti vari volumi  monografici di rivista sulla sua figura, quali Furio Jesi, Mitopolitica per la rivista Polemòs e  Dossier: Furio Jesi e la scienza del mito per la rivista Mythos. Anche all’estero sta iniziando  ad attirare l’attenzione di accademici e intellettuali sia nei campi della scienza politica che della  filosofia, della germanistica e nello studio delle religioni. 
Le mitologie sono delle narrazioni che donano senso al mondo comune e ne legittimano l’agire al suo interno.
Ma cosa viene percepito ad oggi come attuale del suo pensiero? Cosa continua ad affascinare  e ad imporsi prepotentemente al nostro sguardo? Innanzitutto – in un mondo di post-factual democracies e populismi, di narrazioni conservatrici  e nuovi e inaspettati fenomeni di sacralizzazione – la sua analisi del mito.  
Chi crede nell’esistenza del mito come sostanza autonomamente esistente, tende a credersi  anche depositario dell’esegesi che, sulla base presunta dell’essenza autonoma del mito,  distingue i giusti dagli ingiusti, coloro che devono vivere da coloro che devono morire.  Qualsiasi studio del concetto di mito che non voglia confondersi con l’elaborazione dottrinale  della mistica del potere, deve quindi affrontare come problema capitale e con la critica più  rigorosa l’eventualità della sostanza del mito.
Così inizia Mito, e così Jesi delinea un nesso strutturale e indistricabile tra la categoria di mito,  quella di mistica del potere – chi può distinguere i giusti dagli ingiusti, chi deve vivere o morire  – e di sua relativa critica. Se il mito è cioè un modello esemplare, qualcosa di extra-storico realmente esistito in illo tempore – come vuole emblematicamente uno studioso delle religioni conservatore come Mircea Eliade – in un tempo precedente a quello umano e storico, allora il  mito viene ad essere un nucleo narrativo e immaginifico intoccabile e sacro, improfanabile, e così arriva ad assumere un valore di fondazione e di legittimazione del presente. Chi, invece, nello studio del mito e delle mitologie – cioè dei racconti che rimandano a questo qualcosa che  non sappiamo essere esistente o meno – non vuole ricadere in questa mistica del potere, deve  mettere in questione esattamente l’esistenza del mito come sostanza.
E questo è quello che Jesi  si propone nel volume Mito, andando ad analizzare “le stazioni della cosiddetta scienza del  mito”, andando cioè a delineare le principali visioni del mito e della mitologia dall’antichità greca alla sua originale proposta del modello macchina mitologica, passando per la visione del mito nel rinascimento e nell’età moderna, nell’illuminismo e nel romanticismo, nello  storicismo e nella psicologia analitica. Quello che risulta alla fine di questa sorta di percorso iniziatico – fenomeno tanto caro al  giovane Jesi – di questa katabasi e anabasi nel profondo della storia del rapportarsi  dell’umanità con la categoria del mito, è la formulazione del modello macchina mitologica. La  scienza del mito è secondo Jesi un “girare in cerchio intorno a un centro inaccessibile: il mito”.
Jesi sostiene l’inconoscibilità strutturale del mito. Tutto ciò che ci è dato studiare è il funzionamento della macchina mitologica.
Se già il maestro Kerényi era restio ad utilizzare la parola “mito” – a favore piuttosto del  termine “mitologia”, cioè narrazione intorno al mito – in quanto il primo rimandava troppo  direttamente ad un nucleo extrastorico e metafisico inconoscibile – su cui i fascismi e i  conservatorismi hanno eretto la loro ideologia – Jesi non vuole neanche più studiare le  mitologie in sé, in quanto discorsi e narrazioni che comunque rimandano a qualcosa, “ponti  incompiuti che rimandano ad un abisso”, ad una sostanza che le precede, a cui nostalgicamente  voler fare ritorno o riattingere sotto le “degenerazioni storiche”. 
Se per Kerényi al di là di un “mito tecnicizzato” – cioè manipolato a fini politici per  mobilitare le masse – esisteva ancora un “mito genuino” – che “sorge spontaneamente dalle  profondità della psiche” – cioè un mito dell’essere umano, in entrambi i sensi del genitivo,  oggettivo e soggettivo, un mito non metafisico ed extrastorico ma creato dagli esseri umani per  orientarsi nel mondo e fondare comunità, Jesi sostiene l’inconoscibilità strutturale dello stesso  mito genuino. Tutto ciò che ci è dato studiare è il funzionamento della macchina mitologica,  una black box che nasconde ciò che ha al suo interno, il mito, ma di cui noi possiamo percepire  solo le sue produzioni, cioè le mitologie, i racconti. Per Jesi non possiamo né affermare né negare l’esistenza del mito come sostanza all’interno delle pareti della macchina, in quanto non  ci è possibile riattingere all’esperienza collettiva che ha dato inizio alle mitologie – “vietato, in  virtù di quella trasformazione antropologica che ci separa dagli antichi, resta per noi il luogo  ove la mitologia poteva essere colta in flagranti” – in quanto il nostro mondo moderno ha precluso quell’esperienza, ed entrambe le posizioni non possono che essere ideologiche, in  quanto affermare per affermare e affermare per negare nascondono la stessa presunta certezza  che è proprio qui in questione. 
Da una parte Jesi sottolinea il comportamento ideologico dei  conservatori, che affermano l’esistenza del mito – che sia della razza ariana, della tradizione,  dello “spazio vitale” o della “terra e del sangue” – e che cercano di riattualizzare nel rito o a  cui tendono nostalgicamente; dall’altra parte considera come ideologico anche la postura  intellettuale dei “critici di sinistra” che negano l’esistenza del mito e lo vedono “come un’allucinazione da febbricitante”, e in questa maniera arrivano a sorvolare anche sulle potenti  ricadute performative di questo. Il mito potrebbe cioè essere “uno zero efficiente”, un qualcosa  di mai esistito, una retroproiezione di tutto ciò che possiamo conoscere – le mitologie – ma che  comunque, anche qualora inesistente, conserverebbe una potenza efficiente, che non bisogna  perdere nell’analisi. 
Affermare o negare l’esistenza del mito significa cadere precisamente  nell’astuzia della macchina mitologica. E l’insegnamento che ci lascia Jesi, con il volume Mito  appena ripubblicato, così come attraverso tutto il suo percorso intellettuale, consiste proprio  nell’affrontare il mito e la sua potenza fascinatoria e ipnotica, non scontrandoci contro di esso  e negandolo, né accettandolo come verità fondatrice, extrastorica e metafisica, bensì  studiandone il meccanismo di funzionamento, e, in questo modo, mettendolo a nudo, esponendo la sua modalità produttiva. E, solo così, arrivare a disattivarlo.