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a grandezza di Gertrude Stein traspare già nel ritratto che le fece il suo amico Picasso. Seppur non si possa ravvisare una reale somiglianza tra la scrittrice e la sua rappresentazione, a risaltare agli occhi di chi vede l’immagine di questa donna, ritratta in un mare marrone, è lo sguardo, evidenziato dal nero che ne evidenzia la profondità. Picasso dipinse questo quadro a Parigi all’inizio del Novecento, poco prima della nascita dell’esperienza cubista. Gertrude Stein da quando si trasferì dagli Stati Uniti a Parigi, città dove resterà fino alla morte, instaurò un legame molto sincero con il pittore spagnolo, divenendo una forte sostenitrice dell’arte cubista e ricoprendo anche il ruolo di mecenate. Tra i due nacque un rapporto fraterno, di cui è notevole testimonianza il libretto che Stein ha scritto sull’amico pittore.
Attraverso uno stile che parla al lettore imitando gli andamenti prosodici della lingua parlata, Stein ricambia il ritratto che le ha fatto lo scrittore, mutando però il mezzo di rappresentazione: dopo essersi concentrata su un’immagine di Picasso inquadrata dentro il suo essere uno spagnolo esule in Francia, Stein in chiusura del libro tira le fila di tutto il suo discorso scrivendo:
Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. Picasso è di questo secolo. Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come mai sono state distrutte. Picasso, dunque, ha il suo splendore. È così. Grazie.
A queste parole, forse perché dedicate a un caro amico e quindi tanto vere per lui quanto per se stessa, sembra che Stein affidi gran parte della sua visione sull’arte a lei contemporanea, non solo figurativa ma anche letteraria e, soprattutto, sembra dare una definizione, seppur larga, della sua stessa poetica.
L’editore Nottetempo ripubblica un libro di Stein ormai da molti anni introvabile, Autobiografia di tutti, e lo fa riproponendo la storica traduzione di Ferdinanda Pivano che apparve nel 1976 per la casa editrice La Tartaruga di Laura Lepetit (di cui il libro accoglie una breve prefazione). In questo libro riecheggia spesso la definizione che Stein dà della pittura di Picasso, in particolare per quanto riguarda il ciclo distruttivo e in continuo movimento delle immagini, che infatti nel libro si sovrappongono ripetutamente, e l’esplorazione di luoghi letterari, terre geografiche e stili che in pochi allora avevano sperimentato.
Si tratta della seconda autobiografia di Stein, scritta dopo il grande successo della Autobiografia di Alice B. Toklas, compagna della scrittrice per tutta la vita, un libro con “poca sperimentazione e molta cronaca, annotazioni sottile e scrittura scaltrissima” come nota Pivano. Se però lo scritto dedicato ad Alice Toklas è il racconto morboso di un’attrazione, e quindi personalissimo racconto erotico che diviene inno alla libertà dell’esperienza amorosa (nonché libro di straordinario successo in anni in cui parlare di simili rapporti era inconcepibile), l’Autobiografia di tutti è invece un’opera che nonostante le somiglianze, tradisce una innegabile differenza di fondo che ne fa forse il libro più ricco e suggestivo di Stein da leggere oggi. I presupposti di un racconto autobiografico si trasformano sin dalle prime righe in una macchina narrativa più ampia e complessa:
Così tutto fu fatto e rimanemmo a Bilignin finché partimmo per Parigi. E a Parigi rimanemmo soltanto qualche settimana e Alice Toklas comprò un ombrello, questo fu poi dimenticato in un ristorante della California centrale e dopo che scrisse per cercarlo fu mandato a San Francisco e intanto eravamo partite dall’America e fu mandato a Carl Van Vechten New York e proprio questa settimana Edie Wassermann gliel’ha portato. Le dispiace perché dice che se fosse rimasto laggiù sarebbe stata qualcosa da ritornare a prendere. E nel frattempo ne aveva comprato un altro proprio eguale o almeno credevamo che fosse proprio eguale ma ora che l’altro è ritornato vediamo che il manico è diverso.
Al di là dell’eccentrica costruzione linguistica che contraddistingue lo stile di Stein, in queste poche righe si intravede già, nella storia di un ombrello e della sua perdita, l’incrocio geografico che è cifra peculiare della vita della scrittrice e che è la ricchezza più grande di questo libro: si tratta dell’intersezione tra due mondi, quello statunitense e quello francese, catturata in un’epoca irripetibile, la prima metà del Novecento, tra l’Europa, patria delle avanguardie artistiche e letterarie, e gli Stati Uniti, patria della scrittrice e nido di un immaginario molto diverso da quello continentale. Così l’autobiografia tradisce la sua essenza personalistica e si trasforma in racconto polifonico, arioso e geniale: è l’autobiografia di tutti dove però, paradossalmente, non c’è alcuna connessione tra un individuo e un altro, ma invece la descrizione di un rapporto che si estende in una linea orizzontale che non ha interruzioni e lega con un filo invisibile le esistenze tra due mondi.
Ciò che più trasuda dalle pagine di Stein è un amore per la vita e per tutte le sue fatiche. Stein è innamorata di tutto ciò che vive e si trasforma, dell’attimo della creazione artistica e della sua elaborazione, e racchiude tutto questo in una tensione intellettuale continua, che è il movimento incessante che guida tutto il libro. La parola scritta parla al lettore e lo trascina in un unico respiro dalla prima all’ultima pagina: questo perché Gertrude Stein riesce nel suo tentativo di trasferire nello scritto la lingua parlata, portando a termine l’impresa, molto rara in gran parte della letteratura a dire il vero, di trasmettere, attraverso uno stile paratattico e che procede per libere associazioni, la vitalità e la bellezza della parola. Le pagine non mancano poi di una riflessione metalinguistica sulla sua personale estetica, talvolta facili e altre volte ironiche, ma sempre centrate perché l’interrogazione sulla scrittura e sulla natura della sua parola, da cui imparò molto nel suo periodo parigino anche Hemingway, rappresentano un chiodo fisso nella sua mente. Particolarmente istruttivi in tal senso sono i riferimenti alla lingua americana, alle sue parole di una sillaba, alle teorie sul sostantivo e sul romanzo americano che benissimo sono rese da Pivano nella sua magistrale traduzione.
L’America, nonostante la lontananza fisica, figura come un riferimento continuo, più o meno velato, di una esule; eppure, nei viaggi che vengono raccontati nel libro, la felicità della scrittrice di trovarsi a casa è sempre offuscata da un filo di malinconia. Tale sentimento è dovuto principalmente, come nota anche Pivano, a due fattori: innanzitutto la consapevolezza degli ultimi soggiorni nella propria casa natale, la consapevolezza di chi “intuisce di vedere un luogo per l’ultima volta”, poi la disillusione violenta verso un sogno infranto. Stein nella sua vita, vissuta a cavallo tra due secoli e con le dure parentesi della guerra, ha assistito all’avvicendarsi di due generazioni che non sono riuscite a coltivare e a far fiorire la spinta democratica, il welfare esteso e l’uguaglianza di ogni uomo che figuravano come basi, teoriche, del vivere americano. Il libro si chiude con delle righe che ne racchiudono il senso, dove l’autrice non nasconde la sua debolezza e mostra, in maniera allegorica, la delusione per un sogno distrutto dall’industrializzazione e dal conformismo di scuole di pensiero che appiattiscono la realtà:
E mi piace essere a Londra e mi piace avere un Balletto a Londra e mi piace tutto ciò che hanno fatto al Balletto di Londra e mi piace il modo in cui è piaciuto il Balletto di Londra e poi ritornammo a Parigi e ritornando vidi l’unica cosa spaventevole che abbia mai visto da un aeroplano un largo strato di nebbia sull’acqua che attraversava il centro del Canale, non so perché ma fu spaventevole e lì raccogliemmo tutto e partimmo per Bilignin. Questo era una cosa naturale, forse io non lo sono anche se il mio cagnolino mi conosce ma comunque mi piace ciò che ho e ora è oggi.
La coltre di nebbia che copre il corso d’acqua e che blocca la vista è il simbolo di uno strato leggero di opacità che si può vedere solo dall’alto, solo attraverso quella vista panoramica che ha sempre mosso Stein, simbolo di una gioia intellettuale ma anche, rovescio della medaglia, portatrice di una triste consapevolezza riguardo la realtà. All’interno di questo mondo, se ne nasconde però un altro che Nottetempo con la sua edizione mira a ricostruire. È quella di Fernanda Pivano, non solo traduttrice dell’opera, ma anche amante sincera e consapevole di Stein, della sua scrittura e delle storie da lei raccontate.
Nei due scritti della traduttrice che precedono l’opera, uno sulle vicende legate alla traduzione, l’altro invece un vero e proprio saggio sul romanzo, si legge dell’emozione di una giovanissima scrittrice che si innamorò del libro durante una serata a casa di Alberto Mondadori dedicata all’Antologia di Spoon River: “subito sul pianoforte a coda che nessuno suonava vidi una copia dell’Autobiografia di tutti, come ritrovare una amica imprevista, che subito mi liberò dal disagio di ritrovarmi fra tanti letterati ignoti ed ignari”.
Nacque lì la richiesta di Mondadori a Pivano di tradurre il libro: fu il principio per Pivano di un viaggio in “un mare che finì per diventare oceano, diluvi di citazioni, inondazioni di appunti: da qualsiasi parte sfiorassi il problema – scrive Pivano – precipitavo in abissi di temi da esplorare, di personaggi da accostare, di volumi da studiare su quegli anni di rivoluzione e trasformazione quando cambiò la faccia del mondo mentre cambiavano l’arte e la scienza, il costume e la storia”. Le parole più delicate sono quelle che Pivano riserva ad Alice Toklas, incontrata a Parigi, in rue Christine, “donna fragile come un mucchietto d’ossa e forte come un indomabile acciaio”, morta sola, diseredata da un trucco legale, ma accanto a Gertrude “al cimitero Père Lachaise, dopo aver pagato la lapide che avrebbe dovuto essere posata sul rovescio di Gertrude, attenta a non essere indiscreta neanche dopo la morte”. Un amore, quello di Pivano per Stein, racchiuso in poche parole che riescono, come le parole di una vera amica, a tratteggiarne un profilo tanto sottile quanto completo: “questa grande ribelle, questa anarchica programmatica, è una delle figure più coerenti della storia letteraria di tutti i tempi”.