“P
rima di questo libro pensavo al Tevere come a un monumento, non a un fiume”: dice così di È giusto obbedire alla notte lo scrittore esordiente Roberto Livi (finalista insieme a Matteo Nucci dell’ultima edizione del Premio Procida). Ed è in effetti così che si pone il romanzo di Nucci, sin dall’apertura: un’epopea del fiume e dei suoi pescatori ruvidi, frenetici, intenti a stabilire se per la donna sia più appropriata la definizione di “cagna o apertura”. Difficile rimanere dritti (cioè concentrati sul testo, sulla trama, sulla storia) mentre questi barconi si riempiono di voci e figure di uomini e donne che per tutta la prima parte quasi non si distinguono: al posto dei loro singoli tratti o caratteri, descrizioni su descrizioni della notte, del giorno, dell’acqua, del cielo, dei pesci, delle funi, dei cappelli, delle baracche, del via vai dalla cucina, oltre ai discorsi esoterici di tutte queste voci sovrapponibili. Un’immissione forzata in un mondo ai margini, dove l’unico individuo che acquista rilievo è l’estraneo, il cosiddetto dottore, il senza nome che ha trovato rifugio in questa lasca comunità di reietti, figure eccentriche dai nomi stranieri o romanissimi (Cesare, Giulio, Huertas, Milan, Helena, Ieva).
È col secondo capitolo che la storia decolla: fino a p. 150 (praticamente la lunghezza di un romanzo autonomo, nella maggior parte della produzione corrente, di solito in corpo 20 e interlinea doppia) non sappiamo quasi niente di cosa sia capitato al nostro eroe, né perché si trovi lì, né se sia, effettivamente, l’eroe, quel dottore, o non si tratti di una storia corale, il cui senso vada cercato proprio nell’insieme delle storie, nel flusso che scorre dentro il romanzo-fiume, che passerebbe così da simbolo di una città ad allegoria dell’esistenza. La seconda parte zooma su una vicenda in cui l’elemento emotivo prende il sopravvento sull’impeto descrittivo iniziale: la scansione dei giorni che si susseguono in una cronologia lineare accompagna il racconto dell’evolversi di una malattia infantile: è la figlia del dottore ad ammalarsi, come nella filastrocca delle nostre infanzie (o come nel libro ormai archetipico di Philippe Forest, probabile riferimento dell’autore).
Più la bambina si ammala, più la storia prende corpo e consistenza, e attorno alla figlia del dottore si concretizzano le figure della moglie che non regge il dolore e scappa, della nonna che prova a resistere ma si ammala pure lei, in una Roma tutta diversa da quella iniziale, in cui il fiume è solo lo spartiacque delle strade e le vite procedono secondo schemi e rituali meno estremi e anzi piuttosto convenzionali: la crisi matrimoniale già prima della malattia della figlia (“Tutto quel che ho fatto, io, perché tu potessi. Se invece io avessi, adesso non avremmo. Se tu fossi stato adesso forse saremmo”, in una sequenza mirabile sull’incomunicabilità di coppia), la crescente richiesta di attenzioni da parte della madre in parallelo al prodursi del trauma, l’egoistico accanimento del padre alla ricerca di una cura che tutto il resto (moglie inclusa) finisce col cancellare dal quadro.
È proprio il padre a caricarsi il dolore e al contempo a cercare una via d’uscita, una cura, appunto, che troverà accidentalmente nell’imprevista vicinanza di una donna alla bambina, con la fortuna e l’amore consentito agli altri, liberi dal fardello dell’accudimento coatto e dalla responsabilità della guarigione (o dall’evidenza del suo fallimento). Quando il dottore, nel terzo capitolo, chiederà a quella donna, Victoria, se avesse mai, dal giorno del suo ritorno al fiume, ricollegato la sua persona alla bimba malata, la donna rimane in silenzio: non conferma e non nega, pietrificata dalla consapevolezza. Sarà poi proprio un suo gesto (gratuito, ovviamente) a riannodare la storia e a restituire senso all’ostinazione nella cura palliativa del finto dottore.
È il tempo a farci vivere o a ingannarci di essere vivi, ma non esiste, fuori dalla nostra percezione egotica, una dimensione in cui le cose fluiscono, arrivando alla fine della storia.
È una donna, quindi, a trovare la chiave, rivelandosi perciò “apertura”, laddove fino a quel momento si era qualificata più volentieri (con un po’ di indugio compiacente da parte del narratore) come “cagna” (nei due incontri erotici descritti alla stregua di match pugilistici con la signora borghese e con Anna, la moglie-madre). Ti piace vincere facile, Nucci, si pensa procedendo nella lettura, come quando nei film ci sono i bambini: se poi i bambini muoiono, figurarsi. Ma Teresa, la bambina di È giusto obbedire alla notte non muore in scena, o non platealmente. Teresa è solo un pre-testo (come ha raccontato l’autore in un’intervista, lo spunto viene da una sua visita occasionale all’ospedale del Bambin Gesù) per raccontare la tenebra, l’oscuro (ombra e penombra sono tra le parole più ricorrenti nel testo), il rovescio del buono e del bello, della vita diurna e produttiva (il protagonista a contatto col dolore come prima reazione smette di lavorare, poi rinuncia ad essere chiamato per nome).
Ma il libro va persino oltre, perché la minaccia alla vita non è l’estremo della morte, bensì il tempo e dunque la vita nel suo svolgersi: è il tempo a farci vivere o a ingannarci di essere vivi, ma non esiste, fuori dalla nostra percezione egotica, una dimensione in cui le cose fluiscono, arrivando alla fine della storia. Il libro di Nucci si configura così come una declinazione particolare del romanzo-saggio, in cui i concetti prendono il sopravvento sui personaggi e l’incedere della trama è una possibilità tra tante (così, mutatis mutandis, in Musil e in tutta la prima parte del suo capo d’opera). Al centro della narrazione – che quasi diventa una metanarrazione, a questo punto – c’è il senso del trascorrere degli eventi: condizione essenziale nel superamento di un trauma è l’elaborazione, che si dà come percorso nel tempo, quando non è un’attesa prona al suo passare. Il fiume è immagine dunque non dello spazio ma del tempo, del tras-correre, appunto, cioè del passare da un punto-momento ad un altro: dall’accettazione della condizione di finitudine alla vera e propria inesistenza, esattamente mentre ci è richiesta una presenza più viva e partecipe. Si scompare. Tutti.
Non si torna mai, Sergio. Non si torna mai.
Se tu venissi…
Non si va e non si torna e non ci si sposta mai. Guarda il fiume. Non c’è altro. Lo sai anche tu.
Bisogna solo aspettare, non c’è altra medicina che il tempo: lo si dice comunemente a chi attraversa un lutto. Ma è tutt’altro che popolare, invece, anzi, filosofica in modo esibito la dimensione del tempo-lampo presentata nel centro ideale del romanzo, a p. 225: ciò che accade, andando da Eraclito a Heidegger (che nella sua “tana” esibiva proprio l’immagine del lampo eracliteo) ci colpisce e ci spezza ma ci inscrive, al contempo, nella serie ciclica e universale dell’accadere comune (e dunque del non accadere per noi):
Il fatto è che noi non capivamo, non potevamo capire. Perché non avevamo fatto esperienza del lampo. Il lampo squarcia la tela che noi abbiamo costruito. […] Questa tela è composta dai nomi, dalle definizioni e dalle immagini. Ma come può aiutarci veramente […]? Come si può utilizzare?
Lo squarcio schopenhaueriano è qui preludio alla piena consapevolezza non solo dell’insignificanza ma proprio dell’impossibilità a muoversi, e cioè a vivere (il tempo è il vettore del transito ma anche della sua inesistenza, come nel paradosso di Achille e della tartaruga):
Non si va né avanti né indietro. Non si parte e non si torna. Non ci si muove. Tutto è sprofondato nell’assenza del tempo e l’assenza del tempo è la vera morte. Noi non viviamo mai.
A parte i filosofi citati o richiamati indirettamente nel romanzo, una considerazione simile c’è ancora in Musil, nella riflessione di Ulrich sull’insignificanza delle storie apparentemente lineari dei singoli contro l’incedere sghembo della Storia, che non ha una direzione predeterminata tanto che potrebbe darsi tutta diversa, se solo si ricominciasse da capo (un’idea simile tornerà nel Guido Morselli di Contro-passato prossimo, musiliano più d’ogni altro). Ma Nucci non è storico, ed è, se mai, tragico: quello che gli interessa è la domanda universale sul dolore, sulla sua possibilità di venir estirpato, se non dalla vita in toto dalle vite singolari, di tutti e di ciascuno. “Solo chi obbedisce alla natura sopravvive”, dirà uno dei personaggi alla fine della storia: della natura fanno parte gli uomini, le donne, i bambini, ma anche i sogni, le memorie, il dolore, la notte.